UNO. Il 22 maggio è stata inaugurata a Venezia la 17ª Mostra Internazionale di Architettura, che proseguirà fino al 21 novembre e ha per titolo: How will we live together? (Come vivremo insieme?). «Poniamo questa domanda agli architetti perché non siamo soddisfatti delle risposte offerte dalla politica. In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme», ha detto il curatore Hashim Sarkis. “Centododici partecipanti provenienti da quarantasei paesi; maggiore rappresentanza da Africa, America Latina e Asia; ampia rappresentanza femminile”.
«Varcata la soglia del padiglione centrale dei giardini, uno schermo sul pavimento mostra una folla compatta vista dall’alto. Minuscoli esseri umani si muovono in massa simili a insetti, poi una parte di loro si colora di rosso. Si tratta di un’opera dell’artista israeliana Michal Rovner, già esposta alla Biennale Arte nel 2003. […] Aggirandosi per le sale ci si imbatte tra l’altro in una foto a colori 100×160 cm circa di un iceberg sul quale si trova uomo intento a scongelare la massa di ghiaccio con la fiamma ossidrica. L’opera è del giovane artista ecologista svizzero Julian Carrière.
Non mancano scheletri in contenitori di vetro che richiamano le problematiche ampiamente battute in arte del post-human o tende di ispirazione tribale. E non mancano tronchi di alberi e massi. Ce ne sono più di quanti se ne sono visti nelle mostre di Arte Povera dagli anni settanta. Le installazioni degli artisti-architetti Olafur Eliasson e Thomas Saraceno realizzate assieme ad altri architetti potrebbero essere tranquillamente presentate in una Biennale Arte. [..] Che si tratti di un intervento interessante è fuor di dubbio, ma la percezione che se ne ricava è che abbia usato la Biennale Architettura per presentare un suo lavoro da artista. Ma se ne ricava anche la sensazione che la presenza degli artisti serva a presentare gli architetti come artisti.» (Demetrio Paparoni – Domani, 6 giugno 2021: L’architettura salverà il mondo. Ma chi ci salverà dagli architetti?)
DUE. Nel Padiglione Italia della Biennale di Architettura, «a partire dal 7 settembre, nell’ambito della mostra Comunità Resilienti, fisici, architetti ed economisti dialogheranno sulle opportunità che possono crearsi in Sardegna, nel mezzo della Barbagia, grazie a un nuovo grande laboratorio internazionale progettato per osservare le onde gravitazionali provenienti dall’universo. Il nome è semplice ed evocativo: Einstein Telescope, ET. È stato recentemente selezionato a livello europeo come una delle infrastrutture di ricerca da realizzare nei prossimi anni. E l’Italia, attraverso il ministero dell’Università e della Ricerca e il sostegno della Regione Sardegna, si è candidata a ospitarlo. […]
Per ascoltare le vibrazioni cosmiche occorre il silenzio della Terra. Qui entra in campo la Sardegna, il territorio europeo con il più basso livello di sismicità. Inoltre, poiché occorre eliminare anche il rumore indotto dai fattori atmosferici e dagli effetti di superficie, si pensa di realizzare ET come infrastruttura sotterranea. Ed ecco emergere come luogo ideale una miniera ormai in disuso, quella di Sos Enattos, in Barbagia. Un grande laboratorio la cui costruzione porterebbe a rivitalizzare le competenze della comunità che vive intorno alla miniera dismessa e darebbe uno sviluppo al territorio nel segno dell’innovazione e della mobilità di capitale umano qualificato.
Qui il progetto si fa davvero multidisciplinare, perché il centro di ricerca dovrà integrarsi in un ambiente naturale incontaminato. È una sfida per gli architetti progettare spazi della conoscenza secondo nuovi canoni di sostenibilità ambientale. Fisica e architettura dialogano splendidamente sulla concezione dello spazio e del tempo tra armonie, simmetrie e asimmetrie, geometrie euclidee e spazi curvi. Le teorie e le realizzazioni nelle due diverse discipline rivelano una continua, diversa eppure similmente instancabile attività di ricerca sulla condizione umana nello spazio e nel tempo. […]
E la resilienza dei territori è proprio il tema centrale di “Storie di un minuto“, la sezione del Padiglione Italia alla Biennale gestita da Action Aid e dal Gran Sasso Science Institute. Stimolare la resilienza delle comunità colpite è cruciale, così da garantire in futuro una risposta collettiva a fenomeni che, in un territorio come quello italiano, sono tutt’altro che eccezionali. Naturalmente questo vuol dire portare in quelle aree la banda larga e i servizi essenziali, valorizzare il patrimonio ambientale, storico e artistico, rendere i territori attrattivi per una nuova imprenditoria giovanile basata sull’economia circolare. Vale la pena lavorare per dare alle aree interne del nostro Paese un ruolo centrale, renderle sostenibili e farne un esempio di riduzione delle diseguaglianze.
Terre silenti, come la Sardegna, e terre mosse, come il Centro Italia, unite dal filo della conoscenza, dell’arte, dell’innovazione. Insomma, prendi un esperimento di onde gravitazionali e ci trovi collegato un mondo: l’etica e l’estetica, opportunità economiche, sociali e ambientali. In fondo è l’unità della cultura. E l’Italia, per varietà e ricchezza, continua a offrire esempi straordinari.» (Eugenio Coccia, Rettore del Gran Sasso Science Institute – la Repubblica, 2 settembre 2021)
TRE. Ritornando con i piedi sulla terra: «Non è necessario rispolverare le nostalgie agresti del ragazzo della via Gluck per rendersi conto che a Bologna e in buona parte della regione il cemento e l’asfalto si mangiano ogni anno centinaia di ettari di suolo fertile. Basta un giro nei Comuni limitrofi alla città, tra Granarolo, Castenaso, Bentivoglio, Casalecchio e San Giorgio in piano, per notare siepi di gru, cantieri dai quali spuntano condomini, palazzine, ville a schiera, centri logistici e capannoni con il loro corollario di strade, parcheggi e svincoli.
Se l’obbiettivo della legge regionale del 2017, che dovrebbe limitare il consumo di suolo, era contenere in 7 mila ettari tale consumo al 2050, 1580, il 20%, l’abbiamo già sfruttato nel 2020. Numeri che raccontano da sé il fallimento della suddetta norma. Solo l’anno scorso, col covid che ha paralizzato molte attività, sono stati persi 425 ettari, in pratica ogni cittadino ha visto sparire un metro quadrato. Sono i dati eloquenti dell’ultimo rapporto dell’Ispra (l’istituto superiore per la protezione ambientale) che allarga l’analisi anche al triennio 2017-20 con conclusioni ancora più allarmanti di cui si parlava: 1580 ettari ” bruciati” da cemento e asfalto pari a 3 metri quadrati in meno per abitante da Piacenza a Rimini in un triennio. […]
Come detto, complessivamente, nel periodo considerato, 1580 ettari di suolo fertile sono stati impermeabilizzati con la conseguenza di incrementare frane, erosioni, allagamenti e piene in fiumi e torrenti. Spaventano anche le previsioni, soprattutto per ciò che concerne lo sviluppo della logistica, uno dei settori a più grande voracità di suolo. Solo a Bologna sono già stati inseriti nei “Poc” (piani operativi comunali) 300 ettari destinati ai quattro centri lungo la via Emilia di Altedo, Castel San Pietro, Martignone (vicino a Philips Morris) e Imola.» (Valerio Varesi – la Repubblica Bologna, 31 agosto 2021)
QUATTRO. Anche l’architetto può essere un visionario, ma contrariamente all’artista visivo non può permettersi di sfuggire – o peggio, negare – la realtà che lo circonda. Gli obiettivi della sostenibilità legati all’ambito del costruire non si risolvono riempiendo di alberelli i balconi, o realizzando installazioni artistiche alle esposizioni internazionali, oppure osservando le onde gravitazionali provenienti dall’universo. La sostenibilità si può eventualmente raggiungere – oltre che con un’evoluzione culturale – mediante tecnologie avanzate molto costose; questo significa che un’architettura sostenibile è possibile solo attraverso grandi investimenti finanziari. Paradossalmente, lo sviluppo di progetti così ambiziosi è legato agli interessi economici di quello stesso capitale responsabile dei disastri che affliggono il pianeta, oltre che alle decisioni della politica troppo spesso asservita alla finanza; nonché ai tanti professionisti troppo spesso sottomessi ad ambedue.
Renzo Piano, nel suo discorso di accettazione del Premio Pritzker (il cosiddetto “Nobel per l’Architettura”) il 7 giugno 1998 a Washington ha detto: «L’architettura è come un iceberg. Non nel senso del Titanic, che se la incontri ti tira a fondo, ma nel senso che ne vediamo solo una piccola parte: il resto è sommerso e nascosto. Nei sette ottavi dell’iceberg che stanno sott’acqua troviamo le forze che spingono l’architettura verso l’alto, che consentono alla punta di emergere: la società, la scienza e l’arte.» Il disastro che è sotto gli occhi di tutti non è altro che la logica conseguenza della miope attitudine degli “orchestrali” coinvolti nel processo costruttivo ad impegnarsi esclusivamente nella difesa del proprio strapuntino. Un’unica, stolida indifferenza infatti li accomuna: «Iceberg…? Ma quale iceberg?!»
Così, mentre l’orchestra se la suona e se la canta, la nave lentamente affonda.
(P.S. Il redattore di questo blog è un architetto.)