Il fascismo «è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco.»
(Piero Gobetti)
Nel giorno in cui si celebra il settantaseiesimo anniversario della liberazione, è importante ricordare che il fascismo non è affatto caduto dalle nuvole, bensì è nato in Italia e solo successivamente è stato importato nei loro paesi da altri dittatori (ad esempio Hitler, grande ammiratore di Mussolini – ma i tedeschi hanno avuto più coraggio nel fare i conti col proprio passato…). È molto importante ricordare che il fascismo è stato il frutto della debolezza morale e della povertà intellettuale di una egemone classe borghese italiana, di una classe dirigente che non ha mai dovuto confrontarsi con le sue responsabilità.
E ricordiamo soprattutto che nel dopoguerra: «La continuità dello Stato si articolò come un processo tutt’altro che statico in seno alle istituzioni, e attraverso i suoi interpreti politici ed economici (nazionali e internazionali) determinò il rapporto storico dell’Italia con il suo passato recente, operando paradossalmente, in particolare nel primo decennio repubblicano, una rottura più profonda con la Resistenza piuttosto che con l’eredità del regime fascista.» (Davide Conti – Gli uomini di Mussolini – Einaudi, 2017)
Come ha scritto Claudio Pavone: nel dopoguerra «La fascistizzazione dell’apparato burocratico non fu dunque, com’è stato scritto, “di parata” […] Il fascismo, come forma storicamente sperimentata di potere borghese, non si esaurisce nei quadri del partito fascista, ma è un sistema di dominio di classe in cui proprio gli apparati amministrativi tradizionalmente autoritarie hanno parte rilevante. Di parata va piuttosto definita, dato il fallimento dell’epurazione, la democratizzazione post-resistenziale.» (in Alle origini della Repubblica, 1995)
Questa colpevole continuità – che ovviamente la citata classe dirigente ha cercato in tutti i modi di far dimenticare – è dimostrata storicamente anche dalle vicende degli apparati di sicurezza, nonché dalla tutt’altro che casuale impunità dei tanti criminali nazifascisti che hanno continuato ad operare nell’ombra – ma anche alla luce del sole, magari a Roma sotto falso nome e frequentando liberamente i familiari – grazie alle loro alte protezioni. Proprio queste (sempre meno) oscure vicende sono ora magistralmente ricostruite nell’importante saggio storico di Giacomo Pacini, La spia intoccabile (Einaudi, 2021).
Quella che segue è un breve sommario sull’evoluzione dei servizi segreti “civili” italiani tratto da questo accuratissimo e prezioso saggio di Pacini.
Tutto comincia con l’OVRA, sigla di Opera Vigilanza Repressione Antifascista. «Mai usata in atti ufficiali, indicava il complesso dei servizi segreti di polizia politica durante il regime fascista. Nata nel 1926 per iniziativa di B. Mussolini, raccoglieva anche i servizi informativi dei vari corpi aventi funzioni di pubblica sicurezza e proponeva la denuncia degli indiziati al Tribunale speciale per la difesa dello Stato o alle commissioni per il confino.» (da Treccani.it)
UAR invece è acronimo di Ufficio Affari Riservati. «Nell’Italia repubblicana nacque a fine ottobre 1948, quando Mario Scelba, ministro dell’Interno dal 2 febbraio 1947, affidò al questore Gesualdo Barletta la direzione della cosiddetta “Divisione Affari Riservati, con il compito di coordinare il lavoro degli Uffici politici delle questure e di raccogliere informazioni ai fini della sicurezza interna. […]
Formalmente, l’Ovra aveva cessato di esistere dopo il Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 e la conseguente rimozione di Mussolini da capo del governo, ma in realtà, nei territori del Nord Italia che di lì a poco avrebbero visto nascere la Repubblica sociale italiana (Rsi), mantenne le identiche funzioni degli anni precedenti e continuò a essere guidata dagli stessi personaggi […] praticamente nessun dirigente dell’Ovra dopo l’8 settembre 1943 (quando venne reso noto l’armistizio che il precedente 3 settembre l’Italia aveva stipulato con gli angloamericani) decise di schierarsi col neonato governo monarchico del Sud guidato dal generale Badoglio (formatosi a Brindisi dopo il 25 luglio e la caduta di Mussolini); avvenne, semmai, il contrario, visto che nella loro quasi totalità gli uomini che avevano fatto parte delle strutture poliziesche fasciste scelsero di servire la Rsi. E fu proprio fra costoro, molti dei quali scampati ai processi di epurazione tenutesi nel dopoguerra, che vennero in gran parte reclutati i futuri componenti dell’Uar.
D’altronde, quando nel dicembre 1947 Scelba istituì presso il Viminale una commissione interna per studiare come potenziare le forze di polizia della neonata Repubblica, tra i suoi principali componenti comparivano, oltre all’immancabile Guido Leto, Gesualdo Barletta, Saverio Polito e Ciro Verdiani, tutti ex alti responsabili dell’Ovra. Barletta, in particolare, è un’altra delle figure più emblematiche della continuità fra apparati del regime e strutture informative dei governi repubblicani, visto che fu a lui che nell’autunno 1948 Scelba ritenne di affidare la guida del neonato Ufficio Affari Riservati. (…)
La permanenza di Barletta alla guida dell’Uar si concluse nel settembre 1958 quando venne promosso vicecapo della polizia, carica che mantenne per poco più di un anno, per poi chiudere la carriera come consigliere della Corte dei conti. Al suo posto alla testa degli Affari Riservati, Fernando Tambroni, titolare del Viminale dal luglio 1955, chiamò l’allora questore di Trieste Domenico De Nozza, pure lui ex funzionario dell’Ovra (per la quale aveva operato in Sicilia e Toscana) processato nel 1946 per la sua appartenenza ai servizi fascisti, uscito assolto da ogni imputazione e immediatamente reintegrato nelle forze di polizia. (…)
A fine ottobre 1959, con Antonio Segni al Viminale, nuovo capo dell’Uar fu nominato quell’Ulderico Caputo [ex funzionario Ovra, N.d.R.] che (…) solo pochi anni prima si era “distinto” per aver ideato, assieme a Gesualdo Barletta, un piano finalizzato a mettere fuori legge il Pci e sulla cui fattibilità aveva ritenuto di interpellare direttamente la Cia, scavalcando l’allora ministro dell’Interno Scelba. […] La direzione di Caputo, una delle più anonime nella storia dell’Uar, terminò nel marzo 1961 quando divenne questore di Torino e al suo posto Scelba (tornato per la terza volta ministro dell’Interno il 26 luglio 1960) nominò Efisio Ortona, già vicecapo della polizia del Quirinale negli ultimi anni della monarchia. (…)
Il 22 febbraio 1962 al Viminale andò per la prima volta Paolo Emilio Taviani [il quale nel dicembre 1963] ritenne finalmente giunto il momento di dare una “scossa” all’Uar e il primo provvedimento consistette nella sostituzione di Ortona, al cui posto nominò l’allora questore di Genova ed ex capo dell’Ufficio politico di Roma, Savino Figurati (di cui era stato compagno di liceo). (…) Quando poi, nel corso del 1966, Figurati fu colpito da una grave malattia che ne minò le funzioni fisiche e che di lì a poco lo avrebbe portato alla morte, Federico Umberto D’Amato divenne a tutti gli effetti il capo in pectore dell’Uar. Abbastanza sorprendentemente, però, nel giugno 1967, dopo il decesso di Figurati, Taviani decise di affidare la direzione degli Affari Riservati a Giuseppe Lutri, un ex funzionario della polizia politica fascista. (…) Ma che fosse ormai lui [D’Amato, N.d.R.] l’elemento preminente è fuor di dubbio. (…)
Per i suoi detrattori è una sorta di anima nera della Repubblica, della quale avrebbe custodito i più inconfessabili misteri; per i suoi estimatori, invece, è stato il più geniale uomo di intelligence che l’Italia abbia mai avuto, maestro nell’arte dello spionaggio e unico esponente dei nostri servizi davvero stimato a livello internazionale. (…) I suoi primi legami col mondo dell’intelligence si concretizzarono nei convulsi giorni post-8 settembre 1943, allorché non esitò a schierarsi dalla parte degli Alleati divenendo, grazie soprattutto ai buoni uffici di James Jesus Angleton, uno degli ufficiali di collegamento fra la polizia italiana e i servizi segreti americani. (…) Angleton nel giugno 1944 lo reclutò per una delicata missione da svolgere nel territorio della Repubblica di Salò e in seguito alla quale l’Office of Strategic Service (Oss) entrò in possesso dell’archivio dell’Ovra. (…)
Di lui è stato detto che “sapeva quasi tutto di tutti e quello che non sapeva, tutti pensavano che lo sapesse e per questa ragione, a destra come a sinistra, molti lo temevano ed evitavano di attaccarlo. (…) Il ruolo giocato dall’Uar negli anni della cosiddetta strategia della tensione è una pagina che solo adesso comincia a essere scritta. Se, infatti, sono ampiamente note le accuse rivolte, in sede penale e pubblicistica, ai servizi segreti militari, nuove inchieste (tra cui quelle dei giudici Salvini e Mastelloni) hanno puntato il dito anche sui servizi segreti del Viminale, in particolare per una loro presunta responsabilità nei depistaggi successivi alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 (e un esempio di ciò lo abbiamo visto analizzando i verbali del Club di Berna nei quali D’Amato propagandava la pista anarchica). Il giudice istruttore Gerardo D’ambrosio ha sostenuto che l’Uar in quegli anni: “si muoveva in modo spregiudicato ed occultò le prove concernenti diversi attentati”, poiché “i suoi uomini filtravano i risultati delle indagini di polizia e facevano arrivare ai magistrati solo quello che volevano”. (…)
Rievocando quei giorni, l’ex funzionario dell’Ufficio politico della questura di Milano Marcello Giancristofaro ha affermato che, dopo la strage: “le indagini ricordo che le inviammo solo verso la sinistra e gli anarchici. Non furono o meglio non ricordo se furono svolte indagini nei confronti dell’estrema destra. Ma non mi sembra.” Ancora più esplicito è stato l’ex commissario Antonio Pagnozzi, all’epoca della strage dirigente della cosiddetta “Sezione movimenti giovanili” della questura milanese, il quale ha sostenuto di aver percepito che vi era “un che di pista prefabbricata originata non a Milano allorché, da Roma, pervenne la comunicazione che era stato Valpreda a portare la valigia con l’esplosivo a Milano”. In una successiva deposizione ha precisato che l’indicazione a puntare su Valpreda quale responsabile dell’eccidio venne direttamente da Roma, dal vertice dell’Uar, che era il vero dominus delle indagini sulla strage. (…)
Fu la strage avvenuta a Brescia in piazza della Loggia il 28 maggio 1974 a causare lo scioglimento dell’Uar. Le veementi reazioni di piazza che si scatenarono dopo quell’ennesimo atto terroristico (8 morti e 102 feriti) convinsero Taviani (tornato al Viminale l’8 luglio 1973 nel governo Rumor IV) della necessità di dare un apparente segno di discontinuità rispetto al passato, attuando una sorta di epurazione all’interno dei servizi segreti, ormai apertamente accusati di essere inerti, se non perfino collusi, con i responsabili dei gravi fenomeni di stragismo che da anni stavano insanguinando l’Italia. In questa sua scelta, ha raccontato Taviani, pesò anche il fatto di aver saputo che a Brescia “c’erano due poliziotti che erano fascisti”. Si trattava, come accennato, di Mario Purificatore e Aniello Diamare, capo della squadra mobile bresciana e vicequestore della città lombarda. Ciò “mi irritò molto e contribuì alla mia decisione di far sciogliere gli Affari riservati”. (…)
Un ex militante di Avanguardia Nazionale: “D’altronde negli anni sessanta, con una polizia in cui tutti i quadri erano ex fascisti, era facile entrare in una dinamica di vischiosità”.
Il I° agosto 1996 D’Amato è deceduto nella sua casa romana in via Cimarosa 18, mentre era intento a scrivere un libro autobiografico che non ha mai visto la luce. (…) Tre mesi dopo il suo decesso (ed è difficile credere sia stata solo una coincidenza) venne alla luce l’archivio di via Appia, grazie al quale si è cominciato a comprendere appieno quanto rilevante fu il ruolo dell’Uar e dello stesso D’Amato nella storia del nostro Paese.
L’11 febbraio 2020 la procura generale di Bologna ha notificato quattro avvisi di chiusura delle indagini nell’ambito dell’inchiesta sui mandanti e finanziatori della strage del 2 agosto 1980 avvenuta alla stazione del capoluogo felsineo, dove una bomba provocò 85 morti e centinaia di feriti. (…) Nel mirino degli inquirenti sono finiti stavolta l’ex neofascista reggiano Paolo Bellini (accusato di aver materialmente partecipato alla strage), l’ex capo del centro Sisde di Padova Quintino Spella, un ex funzionario di polizia (Piergiorgio Segatel) e tale Domenico Catracchia (già amministratore di alcuni stabili a Roma in via Gradoli, strada a suo modo “celebre” per essere stata la sede di un covo delle Brigate Rosse scoperto il 18 aprile 1978 e dove alcuni anni dopo, avrebbero trovato riparo anche alcuni militanti dei Nar).
Contestualmente a tali accuse, la procura generale ha indicato anche i nomi di quattro presunti mandanti e finanziatori della strage indicandoli in Licio Gelli, nel banchiere Umberto Ortolani, nell’ex direttore del “Borghese” Mario Tedeschi e proprio in Federico Umberto D’Amato.» (Giacomo Pacini: La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati – Einaudi, 2021)
Scrive Francesco Filippi: «In settant’anni, nel tentativo di mantenere pulita la memoria del Paese, non abbiamo affrontato con determinazione i crimini che il fascismo ha commesso anche grazie alla connivenza degli italiani e quindi oggi, per molti, dato che non si conoscono i delitti del fascismo pare quasi che il fascismo di delitti non ne abbia commessi». (…) Com’è possibile che dopo tutto quello che è successo — dopo una guerra disastrosa, milioni di morti, l’infamia delle leggi razziali, la vergogna dell’occupazione coloniale, una politica interna economicamente fallimentare, una politica estera aggressiva e criminale, un’attitudine culturale liberticida, una sanguinosa e lunga guerra civile… — , oggi ci guardiamo intorno, ben addentro al terzo millennio, e ci scopriamo ancora fascisti? Ma cos’altro avrebbe dovuto succedere per convincere gli italiani che il fascismo è stato una rovina?» (Ma perché siamo ancora fascisti? – Bollati Boringhieri, 2020)
Giusta domanda, cosa dovrebbe succedere? Comunque, da chi non si è mai preso le proprie responsabilità e non ne ha mai pagato le conseguenze (o al contrario ne ha avuto solo vantaggi) la risposta sarà sempre la stessa. Dai loro eredi della parte sbagliata, la stessa cosa. Però ricordiamolo sempre, come diceva Pietro Calamandrei, una delle anime dell’Assemblea Costituente: «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Qualcuno aveva torto e qualcuno ha ragione. Non è affatto la stessa cosa e non lo sarà mai, perché «La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, e tutto da perdere…». Ai giusti coraggiosi va la nostra gratitudine.