De lana caprina

UNO. L’uomo del Guicciardini è un saggio scritto da Francesco De Sanctis nel 1869. Sappiamo che questo autore, oltre a nutrire interessi più propriamente letterari, era anche e soprattutto un ricercatore dei caratteri persistenti del popolo italiano. Orbene, questi caratteri persistenti a lui sembravano manifestarsi in modo particolarmente spiccato proprio nello scrittore, storico e politico del Rinascimento Francesco Guicciardini. De Sanctis individuava infatti «nell’atteggiamento di Guicciardini la matrice più profonda di una malattia spirituale che si sarebbe perpetuata nei secoli, corrodendo dall’interno la “fibra italiana”: la difesa dell’interesse particulare, il prevalere del calcolo scientifico su ogni idealità, il cinismo di un’intelligenza esercitata pronta a mettersi al servizio del migliore offerente vennero individuati da De Sanctis con grande chiarezza come i principali indizi di una crisi che era al tempo stesso causa ed effetto dell’asservimento della penisola allo straniero. […]

Se Francesco Guicciardini è dentro di noi – è questa la conclusione cui giunge De Sanctis – non rimarrà altro che combattere questa pericolosa inclinazione giorno per giorno, nella quotidianità dei comportamenti. Anteponendo all’interesse privato il bene della collettività, con uno spirito di sacrificio che taluni chiamano e chiamavano follia, già al tempo di Guicciardini, ma che in realtà è la radice più profonda dell’eroismo». (Giulio Ferroni) De Sanctis concludeva il suo saggio con queste parole: «Non c’è spettacolo più miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza. La razza italiana non è ancora sanata da questa fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e simulazione. L’uomo del Guicciardini “vivit, imo in Senatum venit“, e lo incontri ad ogni passo. E quest’uomo fatale c’impedisce la via, se non abbiamo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza.» (Francesco De Sanctis: Saggi critici, vol. III, a cura di L. Russo – Laterza, 1979.)

Trascorsi 152 anni, la coraggiosa e imperitura battaglia intellettuale che iniziò nel 1869 ma forse anche prima sta finalmente maturando i suoi frutti nel nuovo eroismo culturale contemporaneo. Vediamo come.

DUE. «In un recente post sui suoi canali social il comune di Castelfranco Emilia ha annunciato che da adesso in avanti userà lo schwa (ə) al posto del maschile sovraesteso. Una scelta spiegata con queste parole: “Il linguaggio non è solo uno strumento per comunicare, ma anche per plasmare il modo in cui pensiamo, agiamo e viviamo le relazioni. Ecco perché abbiamo deciso di adottare un linguaggio più inclusivo: al maschile universale (“tutti”) sostituiremo la schwa (“tuttə”), una desinenza neutra”. Una scelta che ha scatenato molte reazioni sui social e che è stata oggetto anche di un commento critico da parte del direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, che la definisce una “ennesima idiozia spacciata per progressista”.» (di Cinzia Sciuto, da micromega.net) Da quel momento in poi, ogni intellettuale che si rispetti non può esimersi dal prendere posizione su cotanta iniziativa.

TRE. Schematizzando e semplificando molto, le prese di posizione sono pressappoco di tre tipologie. La prima è quella di chi sembra piuttosto scettico. Luca Ricolfi (docente di Sociologia e di Analisi dei dati, presidente della Fondazione David Hume) ad esempio scrive: «Chi crede che, oggi, il politicamente corretto sia usare una parola giusta al posto di una sbagliata si è perso la parte più interessante del film. Un film che in Italia è ancora alle prime battute, ma in America è andato molto avanti, in un tripudio di scene estreme e di effetti speciali. Oggi il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica. Il politicamente corretto di oggi sta al politicamente corretto delle origini come le varianti più recenti del virus stanno al virus originario (quello di Wuhan). Per capire perché dobbiamo individuare le mutazioni che, nel giro di un ventennio, lo hanno completamente trasformato. […]

La seconda mutazione (da cui la variante beta) è l’espansione della dottrina del “misgendering” in tutti gli ambiti. Che cos’è il misgendering? È chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università americane, i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere indicato: he, she, zee, they, eccetera. Gli epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere finale l’asterisco  (cari collegh), la vocale u (gentilu ascoltatoru), o la cosiddetta schwa (?) (benvenut? in Italia) per essere più “inclusivi”, ovvero non escludere o offendere nessuno.

La nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo- discriminazione – saremmo tenuti a adeguarci. Fra i più deliranti di tali codici quelli emersi recentemente nell’industria delle comunicazioni audio e in ambito informatico. D’ora in poi un operaio, se non vuole essere accusato di sessimo, non potrà più parlare di jack maschio e jack femmina, e dovrà sostituire questi termini con spina e presa. Quanto agli informatici, guai parlare di architettura master-slave, che evocherebbe il dramma della schiavitù. E guai pure a parlare di quantum supremacy (supremazia dei calcolatori quantistici su quelli tradizionali): la parola supremacy è proibita, perché rischia di evocare il suprematismo bianco. […] (la Repubblica, 1 novembre 2021)

 

QUATTRO. La seconda è quella di chi invece concorda con l’iniziativa. Chiara Valerio – scrittrice, traduttrice, curatrice editoriale, direttrice artistica e conduttrice radiofonica – ad esempio: «Uno spettro si aggira sui maschi bianchi eterosessuali italiani: il politicamente corretto nelle sue “varianti” elencate ieri sulle pagine di questo giornale da Luca Ricolfi, sociologo e politologo. È talmente uno spettro che ciò di cui Ricolfi parla, in Italia non è mai accaduto, lo dice lui stesso: “Un film che in Italia è ancora alle prime battute, ma in America è andato molto avanti, in un tripudio di scene estreme e di effetti speciali». Teme Luca Ricolfi che «nell’accesso a determinate posizioni non contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità… perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i discendenti dell’uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati”.

Vorrei sottolineare subito che la categoria di maschio bianco eterosessuale è stata fino a oggi una non-categoria nella misura in cui è stata presentata come la norma. Dal punto di vista insiemistico la descrizione è “maschio bianco eterosessuale” uguale “U – Insieme Universo” nel quale sono contenuti, intersecantisi o meno, altri sottoinsiemi, con etichette varie. Le etichette d’altronde esistono solo per minoranze o gruppi supposti tali. Donne, gay, trans, migranti, musulmani, ebrei. Il maschio bianco eterosessuale sta stretto nell’etichetta come tutti stiamo stretti nelle etichette. Pensava di non esserlo. Il malessere può offrire occasioni di riflessione. E la prima è una vera avventura e cioè che l’insieme universo è più vasto, esiste un fuori, esiste l’altro. L’insiemistica è l’unica matematica che applichiamo giorno per giorno. Siamo abituati a raggruppare persone molto diverse sotto una solo delle loro caratteristiche, quella che riteniamo preponderante, o evidente, o che, nel peggiore dei casi, riteniamo uno stigma.

Non siamo razzisti, omofobi o misogini, siamo insiemisti. È una questione di epistemologia, la rivoluzione copernicana nella meccanica dei corpi e nella società umana ancora non l’abbiamo fatta ma, lentamente e tutti insieme ci stiamo accorgendo che l’universo non coincide col maschio bianco eterosessuale. Va detto che per sentirsi appartenenti alla non-categoria del maschio bianco eterosessuale non è necessario essere bianchi, maschi o eterosessuali ma solo occupare una posizione tale da non dover mai contrattare le risorse e, tra le risorse, il tempo. È importante svelare la natura insiemistica del nostro pensiero perché altrimenti articoli come quello di Ricolfi sembrano pezzi nel merito del politically correct e della cancel culture quando, invece, sono pezzi di metodo. Ed è un metodo di esclusione perché è esposto e analizzato indipendentemente dal contesto nel quale si colloca. […] (la Repubblica, 2 novembre 2021)

CINQUE. Terza (ultima ma non ultima) c’è anche chi fa dell’ironia; ad esempio lo scrittore Ugo Cornia: «Se avesse ragione l’Accademia della Crusca, e se l’asterisco e lo schwa non riuscissero in un futuro più o meno breve ad affermarsi, e tornassimo, o meglio rimanessimo, a una lingua modellata sul più bieco e tipico binarismo sessuale in cui, nella lingua italiana, resta segno soltanto di maschile e femminile, giusto per intendersi rappresentati in genere da nomi maschili terminanti in “o” e nomi femminili terminanti in “a”.  […] Quindi, quando ci troviamo davanti ad un sindac (ero indeciso se usare o no l’asterisco ma è meglio di no per questo ragionamento) e questo sindac per esempio esibisce una certa tipologia, quantità e distribuzione di peli, guardandogli  questi peli molto attentamente dovremmo essere in grado di capire se siamo in presenza di un sindac maschile, cioè un sindac”o” oppure di un sindac femminile, cioè sindac”a”. […]

In questo senso mi sembra che fosse molto più semplice prima, quando, erroneamente convinti dell’ininfluenza sessuale dell’essere sindaci, ci trovavamo davanti a sindaci che in quanto sindaci venivano chiamati sindaci, o meglio sindaco, sia che presentassero caratteri sessuali primari e secondari maschili, quanto femminili. E pensando al futuro, se per caso l’Accademi* dell* Crusc* non ci avesse azzeccat*, sarebbe molto più comodo chiamarl* tutt* sindac*. Ad esempio: buongiorno signor* sindac* o anche con lo schwa: buongiorno signore sindace (la e fate finta che sia lo schwa, che non riesco ancora a farlo sul pc). Chiudo la parentesi dopo questo lungo esempio teorico-metodologico perché vorrei arrivare a porre un problema. Qual è il problema? L’autista. […]

Ecco, quando noi parliamo di autista, non sappiamo mai se è un uomo o una donna. Uno potrebbe dire: ma no, dai, allo scritto si capisce sùbito: un autista è maschile, un’autista è femminile. Va be’, la prossima volta dico: era un autista senza apostrofo, un uomo o era un’autista con l’apostrofo, una donna. Un altro invece dice: puoi dire un autista uomo o dire un’autista donna. Com’era oggi l’autista dell’autobus? E io: era un’autista donna. Ma anche per sindaco potevi dire: com’è il sindaco lì? È un sindaco donna, molto bravo. E arriviamo al dunque, il dunque è che io proporrei che d’ora in avanti se l’autista è una donna si dice l’autista, ma se l’autista è un uomo si dica l’autisto. E questo vale anche per esempio per il motociclista, il ciclista, il trattorista, il gruista, l’estetista e il dentista. Un po’ di tempo fa chiedo a un mio amico: com’è il tuo dentista? Un po’ caro, ma brava, mi fa. Io dico: in che senso un po’ caro ma brava? Perché è una donna il mio dentista. Così, vedi esempio precedente, vengono fuori delle frasi che non si capisce niente. Quindi, d’ora in avanti, se sono donne: la ciclista, la motociclista, la dentista. Se sono uomini: il ciclisto, il motociclisto, il dentisto. Sembra brutto? Può darsi.

All’inizio tante cose sembrano brutte. Magari a qualcuno anche Bach la prima volta sembra brutto. Ma poi ci si abitua. E così in un discorso funziona tutto bene da subito. E adesso che ci penso c’è anche il fisioterapista, io ho un mio amico fisioterapista che è un uomo, dunque d’ora in avanti fisioterapisto. Lui è anche osteopata, ma d’ora in avanti anche qui proporrei osteopato. Mi accorgo in questo momento che con i medici è un vero casino. Per esempio una mia amica l’altro giorno mi fa: sono andata dalla mia ginecologa. Dico, bene, ormai se uno va da un ginecologo uomo dice sono andata dal mio ginecologo, se invece la ginecologa è donna dice la mia ginecologa. È vero, ci sono state le lotte per i consultori pubblici, il femminismo, c’è stato tutto un movimento di massa, eccetera. Ma perché se io porto mio figlio dal pediatra, e il pediatra è un uomo, non devo dire ho portato mio figlio dal pediatro? Quindi, se sono uomini: pediatro, otorinolaringoiatro, fisiatro, psichiatro, e così via. Oppure facciamo l’asterisco e lo schwa che si semplifica. Secondo me una delle due, se no è sempre un paciugo e non si capisce un cazzo.

Adesso che ci penso mi accorgo che mi sono scordato il geometra. Mio nonno era agronomo e geometra. Ma come si fa a dire agronomo e geometra? Basta. D’ora in avanti mio nonno era agronomo e geometro. E chiudiamola qui. (Domani, 3 novembre 2021)

EPILOGO. E noi invece da che parte stiamo rispetto alla fatale questione? È assolutamente necessario prendere posizione non trattandosi affatto di una questione “de lana caprina” (tradotto dal latino: “di lana caprina”; fuor di metafora, spiega Wikipedia, qualcosa di cui si parla per evidenziare l’inutilità o la superfluità del discorrerne poiché priva d’importanza)? Ebbene: noi… aspettiamo! Sì: De Sanctis o non De Sanctis – Guicciardini o non Guicciardini – come al solito (ma per il momento) attenderemo opportunisticamente l’esito finale della disfida: aspetteremo perciò il giudizio della maggioranza e ad esso, ipocritamente ci atterremo. Pardon, ci conformeremo.

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