Giacomo Leopardi, a proposito del rapporto tra immaginazione e vita reale, riteneva che l’autentica piacevolezza dell’esistenza stia assai più nelle cose immaginate che non in quelle davvero vissute. Egli, «tra i poeti non solo italiani, è quello che meglio di ogni altro ha saputo coniugare ispirazione lirica e meditazione filosofica inserendo cioè la dimensione conoscitiva dentro la forma poetica — impeccabili l’una e l’altra.» (Corrado Augias)
Come tutti sanno, Leopardi non era granché ottimista sulla natura umana; ma neppure sulla natura stessa, che considerava una matrigna crudele e indifferente ai dolori degli uomini, una forza oscura e misteriosa, governata da leggi meccaniche e inesorabili. Un pessimismo che oserei definire… “leopardiano”. Tuttavia – si condivida o meno il suo pensiero – mi pare che convenga cominciare a riflettere seriamente su quei particolari meccanismi denominati “cicli del conformismo di massa” nell’epoca della rivoluzione digitale. In particolare nel nostro belpaese.
Ci prova ad esempio Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 18 agosto 2020): «In genere, si forma una minoranza, per lo più un gruppo piuttosto piccolo, anche se attivissimo e rumorosissimo, un gruppo composto da estremisti, pronti ad aggredire chiunque non si genufletta di fronte al loro credo. È la minoranza trainante. Qualche volta (ma le ragioni per cui ciò accade sono complesse e in parte oscure), questa minoranza riesce a imporsi e a trascinarsi dietro un gruppo di persone molto più ampio. A quel punto è fatta, si è affermato un nuovo conformismo. È cruciale capire da chi è composto questo gruppo ampio, talvolta così ampio da diventare una sorta di «maggioranza silenziosa». È composto, fondamentalmente, da due categorie: i camaleonti e i sottomessi. I camaleonti sono coloro che sposano le «idee del giorno» quali che esse siano. Sono quelli sempre in sintonia con ciò che credono, a ragione o a torto, lo spirito del tempo. […]
Oltre ai camaleonti ci sono i «sottomessi». In cuor loro, i sottomessi non ce l’avevano affatto con gli omosessuali quando imperava il tabù. Così come non credono oggi nell’ideologia del gender, del genere. Ma avevano paura ieri di dire come la pensavano e hanno la stessa paura oggi. Temevano e temono di essere disapprovati e eventualmente emarginati dai loro amici, da coloro che frequentavano e che frequentano e che (apparentemente) erano e sono entusiasti sostenitori delle idee del momento. Insieme, camaleonti e sottomessi rappresentano la truppa manovrata dai generali (la minoranza trainante). Grazie a loro si afferma un nuovo conformismo.
Gli umani, per lo più, hanno a cuore soprattutto sé stessi e le persone che fanno parte della loro ristretta cerchia parentale e amicale. Su ciò che riguarda la loro sfera personale sono spesso (anche se, ovviamente, non sempre) capaci di raziocinio e scelte ponderate e informate. Diverso è spesso l’atteggiamento verso i cosiddetti «affari pubblici» (intesi in senso lato) rispetto ai quali la disinformazione è assai diffusa. Per questo, come fanno i camaleonti, tante persone raccattano le prime idee circolanti che danno loro la sensazione di essere largamente condivise. «Se molti ci credono, deve essere una cosa giusta. Quindi devo crederci anch’io». Ma, nonostante le apparenze, non si tratta di irrazionalità. Semplicemente, su ciò che conosciamo poco (perché, in fondo, ci interessa poco) non possiamo fare altro che affidarci a stereotipi, slogan e frasi fatte (da altri). È questa la condizione di base di tutti i conformismi.»
Concordo con Panebianco: non si tratta di irrazionalità, bensì di ipocrisia e opportunismo. Oltre che di codardia.
Poniamo per un momento il nostro sguardo, a titolo di esempio, sulla nostra cosiddetta “classe dirigente”. Un sano concetto di “leadership” (posizione di preminenza con funzione di guida in uno schieramento politico o culturale, o in una attività o in un’impresa) comporterebbe la fatica di porre un’idea forte davanti a sé, e quindi perseguirla con inflessibile coerenza strategica, unendola agli inevitabili compromessi tattici. A parte rarissime eccezioni di personaggi illuminati (Adriano Olivetti, che nostalgia…), la realtà parla invece un’altro linguaggio: quello della cooptazione. Il che esclude a prescindere la pura e semplice applicazione del principio meritocratico e della delega trasparente per competenza.
In termini politici, “essere il delfino di qualcuno”, significa essere il preferito, l’erede, l’eletto successore di un’importante “famiglia”. Tale espressione deriva da “delfino di Francia”, titolo nobiliare attribuito al figlio primogenito e diretto erede del re di Francia (al 1350 al 1830, anno di estinzione del titolo, si sono succeduti ben ventotto Delfini di Francia). Ovviamente, per aspirare al titolo di delfino, ti devi adeguare, o per meglio dire sottometterti, quindi conformarti. Rimane quindi l’impressione che tra delfini e camaleonti esista una certa “affinità di specie.” È ovvio che, in un modo o nell’altro, dobbiamo tutti “sempre servire qualcuno“; quello che però conta è l’onestà e l’indipendenza intellettuale: il che fa tutta la differenza del mondo, cioè quello che troppo spesso – almeno dalle nostre parti – risulta essere del tutto assente. Da questo consegue, inevitabile, il declino.
«Non ci sono due verità, ce n’è una. Perché poi. Esiste il mondo reale, ed esistono i social. Esiste l’identità, chi sono io davvero, come vivo cosa faccio, ed esiste la reputazione, chi pensate che io sia, chi voglio che voi pensiate che io sia. Abbiamo vissuto anni — in politica, e ovunque — sotto la dittatura della popolarità: ci hanno detto che era l’adesione alla domanda. Devi essere come ti vogliono. Come “funziona”, come “conviene”. Poi, però, ecco che c’è chi se ne frega. Chi è quel che è, e non insegue il consenso con la promozione parassita degli staff che lo tengono in ostaggio: lo suscita, non lo insegue, il consenso. Semplicemente mostrandosi com’è, per quello che sente e che pensa, dando così casa e posto a tutti quelli che non riuscivano, non sapevano, non potevano e ora invece, ecco, sì.» (Concita De Gregorio – la Repubblica, 14 febbraio 2020)
Ne abbiamo davvero un gran bisogno, di persone così; e ci piace immaginare che presto esse saranno tantissime. Che si condivida o meno il pessimismo leopardiano, anche nel nostro belpaese, nelle cose “davvero vissute” succede invece troppo spesso (per fare un esempio estremo e metaforico) che “noti picchiatori” si trasformino in candidi “pacieri”. Basta un attimo e quelli si conformano alla nuova situazione, qualunque essa sia. Perché i camaleonti non sono solo “quelli sempre in sintonia con ciò che credono, a ragione o a torto, lo spirito del tempo”. Sono anche e soprattutto quelli che simulano tutto ciò che ritengono di volta in volta più conveniente per loro stessi, nei loro risentimenti e frustrazioni, nel loro bisogno di essere qualcuno. Perciò stesso condannati a divenire nient’altro che degli squallidi e grigi conformisti sottomessi al “pensiero” del momento, nel migliore dei casi; balordi o addirittura criminali e perfino assassini in quello peggiore. Comunque sempre – ed eternamente – solo degli emeriti “signor nessuno”.