Porto maschera, ma per forza; poiché senza di quella, nessun uomo può vivere in Italia.
(Paolo Sarpi)
«Qualche sera fa, all’inizio di un telegiornale, le notizie annunciate erano cinque: la quinta e conclusiva (ritenuta “culturale”, immagino) era che il cantante Biagio Antonacci compiva cinquantanove anni. Non cinquanta o sessanta, ma proprio cinquantanove. La notizia era in quel cinquantanove? C’era una ragione? Il mistero è rimasto tale. O forse tutti i compleanni di quel cantante, nessuno escluso, facevano di per sé notizia, il che sembra eccessivo. La tv fa questo, può farlo.
Cambiando canale sono incappato in un quiz a premi. La concorrente era emozionata e tesa (realtà o finzione?) e la domanda che le era stata fatta riguardava il titolo di una canzone che il divo televisivo Rosario Fiorello aveva cantato all’inizio della sua carriera. Già, è così, proprio all’inizio. Per vincere il premio si doveva sapere, ricordare questo. Eh, per concorrere a questi quiz bisogna essere degli esperti, degli specialisti: sapere tutto non di Italo Svevo (questo sarebbe “nozionismo” scolastico!) ma di Fiorello. La giovane donna emozionata e tesa ha dato la risposta giusta e l’applauso è stato “scrosciante”.
Infine, per un paio di giorni, si è parlato di quel genio “sregolato ma simpatico” di Vasco Rossi, che è venuto a Roma, credo a cantare, oltre che a essere intervistato, e sembrava che a Roma non ci fosse uomo più importante di lui. “Vasco Rossi conquista Roma”!
A Roma c’era anche un convegno su Nicola Chiaromonte, autore da sempre ignorato dalla cultura italiana (ma non da quella statunitense, francese, polacca ecc. ecc.) e quindi un autore finalmente “da riscoprire”. Al convegno c’erano cinque relatori e un pubblico che andava dalle dieci alle trenta persone. Un po’ poco, per parlare di scoprire o riscoprire Chiaromonte.
Per fortuna si può fare della tv anche un uso migliore. Ma le trasmissioni più festosamente popolari sono quelle che insegnano agli italiani di ogni età che “la cultura è noiosa”. Quella di massa no, perché non è cultura, se non, come si dice, “in senso antropologico”.
Eco, Camilleri e seguaci hanno insegnato che la cultura di massa è fondamentale nelle democrazie di massa e che l’intellettuale che ci sa fare, per esempio filosofando sull’amore (Recalcati, Galimberti…), riesce a guadagnare bene. C’è solo un piccolo inconveniente o effetto collaterale: la cultura di massa è quella cosa che fa sentire noiosa la cultura non di massa, scoraggiando non solo la lettura di Guerra e pace e di Chiaromonte, ma impedendo di fissare lo sguardo anche su un articolo di giornale per il tempo necessario a leggerlo da cima a fondo.
Sociologi e antropologi, stufi di ripetersi, hanno smesso di dirlo: ma la nostra, dal Novecento in poi, è la civiltà nella quale della bruttezza e della stupidità ci si è accorti sempre meno. Siamo riusciti in una notevole impresa, quella di rendere brutta la bellezza (vedi le sfilate di moda: vedi la Moda) e rendere stupida l’intelligenza (qui non faccio esempi: mi sono ripetutamente espresso).
Ultima osservazione. La cultura di massa vive di horror vacui, non sopporta le pause e i vuoti. Li riempie sempre. Ma quel vuoto che viene riempito per essere riempito crea una pienezza del vuoto e sembra che i nostri giovani non riescano ad affrontare il vuoto: vanno in panico. In quel telegiornale qualcuno si era accorto che c’era un vuoto in coda e così l’hanno riempito con il compleanno di Biagio Antonacci (a cui faccio i miei migliori auguri). Ma io, di fronte al televisore, sono stato sul punto di sentirmi come lo spettatore del racconto di Kafka In galleria, che non essendo riuscito ad alzarsi per urlare “alt!” e interrompere lo spettacolo, “piange senza saperlo”.» (Alfonso Berardinelli)
Ma ascoltiamo Valerio Magrelli in Millenium Poetry:
«Quattrocento anni fa, incriminato di lesa maestà ed eresia, il frate domenicano Tommaso Campanella viene arrestato a Napoli. Per mesi e mesi, superando sevizie e sorveglianze, cercherà di far fronte alla situazione con un disperato stratagemma: farsi credere pazzo. Egli conosce a fondo i canoni, e sa che il folle non può essere ucciso, in quanto non avrebbe modo di pentirsi. Se ciò accadesse, la sua anima andrebbe persa e la responsabilità di un simile peccato ricadrebbe sui giudici.
Forte di questa certezza, l’imputato attende la prova legale conclusiva fissata per il 5 giugno 1600. Poco più di cento giorni prima, nella romana piazza de’ Fiori, il Sant’Uffizio aveva mandato al rogo Giordano Bruno; il tutto mentre nella sua sede della limitrofa piazza Farnese, l’ambasciatore francese si lamentava per l’insistente puzzo di carne bruciata così sgradevole per i suoi invitati. Mattina e sera, con le braccia slogate e le gambe ferite, Campanella continua imperterrito la sua commedia. Il carnefice lo esorta a confessare – ha raccontato Luigi Firpo – ma lui risponde solo: “Dieci cavalli bianchi… dieci cavalli bianchi… dieci cavalli bianchi…
Poi, la vittoria. E al boia che lo trascina in cella, rivolge quella frase piena di disprezzo: “Si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?”»