Due macchie di Rorschach

PIETROBURGO, 16 NOVEMBRE 1849. Fëdor Michajlovič Dostoevskij viene condannato a morte.

Lo scrittore allora ventottenne frequentava il circolo politico culturale promosso da Michail Vasil′evič Petraševskij. La polizia zarista, nella notte fra il 22 e il 23 aprile 1849, irruppe nella casa di Petrasevskij arrestando più di venti fra i partecipanti a quegli incontri, fra cui lo stesso Dostoevskij, per attività antigovernative. Dostoevskij «venne rinchiuso, con i suoi colleghi di cospirazione, nella sezione Alekseevskij della fortezza di Pietro e Paolo. Lo mettono nella cella numero 1. Ci restò otto mesi.»  (Paolo Nori)

L’esecuzione venne fissata per il 22 dicembre del 1849 a San Pietroburgo. Quella mattina furono condotti in piazza Sëmenov, gli lessero la condanna, gli fecero baciare la Croce, spezzarono le spade sopra le loro teste e furono fatte loro indossare delle camicie bianche, abbigliamento delle esecuzioni. Tre di loro furono legati al palo dell’esecuzione, mentre Dostoevskij aspettava di essere giustiziato al turno successivo, essendo il sesto della fila. Solo a questo punto fu annunciata la revoca della condanna e la sua commutazione nei lavori forzati. Il 24 dicembre lo scrittore fu deportato in Siberia, dove giunse l’11 gennaio 1850. Il 17 gennaio venne rinchiuso nella fortezza di Omsk, dove rimase per quattro anni a lavorare l’alabastro, trasportare tegole e spalare neve, fino alla grazia per buona condotta.

«Dmitrij Dmitrievič Achšarumov, un ventiseienne funzionario del ministero degli Esteri di origini armene, frequentatore del Circolo Petraševskij e compagno di detenzione di Dostoevskij, racconta cosa successe quella mattina:

“I condannati non opposero resistenza. Legarono le mani dietro ai pali e unirono le corde con una catena. Dopo venne dato l’ordine di “calare il cappuccio sugli occhi”, e i cappucci vennero abbassati sul viso dei nostri compagni legati. Echeggiò il comando “Puntare!”, dopodiché un gruppo di soldati che stava sul patibolo, ce n’erano sedici, puntarono il fucile contro Petraševskij, Spešnëv e Mombelli… Fu un momento terribile. Vedere che si preparavano alla fucilazione, e vedere le canne dei fucili già puntate contro di loro, quasi a bruciapelo, e aspettare che scorresse il sangue e che morissero fu terribile… Il cuore si fermò nell’attesa, e quel momento spaventoso durò trenta secondi. Non pensavo al fatto che sarebbe toccato anche a me, tutta l’attenzione era assorbita dalla scena sanguinosa che stava per aver luogo.

Il mio sdegno crebbe ulteriormente quando sentii il rullo di tamburi, il cui significato allora non capivo, non avendo ancora servito nell’esercito. “Ecco la fine di tutto!…” Poi vidi che i fucili puntati improvvisamente vennero alzati. Mi sentii subito sollevato, come se mi fossi tolto un peso dal cuore! Poi cominciarono a slegare Petraševskij, Spešnëv e Mombelli e li condussero nuovamente al loro posto. Arrivò una carrozza, da cui uscì un ufficiale, un aiutante di campo, e portò un foglio che fu subito consegnato per essere letto. In esso veniva annunciato il fatto che il Sovrano Imperatore ci faceva dono della vita, al posto della pena di morte, a ognuno, a seconda della colpa, una pena diversa… Al termine della lettura di quel foglio ci tolsero i lenzuoli funebri e i cappucci.»” (da “Sanguina ancora: L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij” di Paolo Nori)

Ma perché Dostoevskij fu condannato a morte? La sua principale colpa era quella di aver letto al circolo di Petraševskij una famosa lettera di Belinskij a Gogol’, (…e appunto nel ’48 c’è la rivoluzione e lo zar Nicola I si preoccupa un po’ e infiltra gli agenti; c’è un agente italiano, si chiama Antonelli…) che era stata proibita dallo zar Nicola I. «Tale lettera fu talmente dirompente che, nonostante i severissimi divieti della censura, fu diffusa clandestinamente negli ambienti letterari dell’epoca. Il solo possesso di una sua copia era un crimine punibile con i lavori forzati o addirittura con la pena di morte.» (da Wikipedia)

Ma allora la dobbiamo cercare, questa lettera; così veniamo a sapere che il critico letterario Belinskij, creatore delle fortune di molti scrittori russi di quel tempo, e che era stato un grande estimatore di Gogol’ e del suo capolavoro Le anime morte, in cui l’autore fustigava i vizi del popolo russo e ridicolizzava la borghesia e i funzionari statali avidi e corrotti, aveva visto nella più recente opera di Gogol’ (Brani scelti della corrispondenza con amici) un cambio di registro e l’allineamento alla morale dei benpensanti. A Belinskij parve chiaro che Gogol’ si fosse arreso, forse per viltà, al potere autocratico dello zar, e che avesse strumentalizzato a vantaggio delle classi dominanti la spiritualità cristiana e tradito così la propria missione di letterato. Ecco quindi un estratto della lettera di Vissarion Grigor’evič Belinskij a Nikolaj Vasil’evič Gogol’:

«[…] conosci profondamente la Russia solo come artista, e non come persona pensante, il ruolo che hai assunto senza successo nel tuo fantastico libro. E questo non perché non fossi una persona pensante, ma perché da tanti anni sei abituato a guardare la Russia dalla tua meravigliosa distanza; ma si sa che niente è più facile che vedere gli oggetti da lontano come vorremmo che fossero.

Pertanto, non hai notato che la Russia vede la sua salvezza non nel misticismo, non nell’ascesi, non nel pietismo, ma nei successi della civiltà, dell’illuminismo, dell’umanità. Non ha bisogno di prediche (finiamola di ascoltarle!), non di preghiere (smettiamola di ripeterle!), ma di risvegliare nelle persone il senso della dignità umana, da tanti secoli perso nel fango e nella spazzatura, – diritti e leggi che non debbano essere coerenti con gli insegnamenti della Chiesa, ma con il buon senso e la giustizia, e la loro attuazione la più rigorosa possibile.

E invece, ci si presenta uno spettacolo terribile di un paese in cui le persone commerciano persone senza avere il diritto di farlo; senza nemmeno la giustificazione che usano ipocritamente i piantatori americani quando affermano che il negro non è un uomo; vediamo paesi in cui le persone non si chiamano coi loro nomi propri, ma con soprannomi; paesi dove, infine, non solo non ci sono garanzie per la persona, l’onore e la proprietà, ma non c’è nemmeno un ordine di polizia, ma ci sono solo enormi corporazioni di ladri e rapinatori ufficiali vari!

Le questioni nazionali più vitali e moderne in Russia sono ora: l’abolizione della servitù della gleba, l’abolizione delle punizioni corporali, l’introduzione della più rigorosa attuazione possibile almeno di quelle leggi già esistenti. Lo sente anche lo stesso governo, come dimostrano le sue timide e infruttuose mezze misure a favore dei negri bianchi e la comica sostituzione della frusta a una coda con la frusta a tre code.

Queste sono le domande di cui tutta la Russia è ansiosamente occupata nel suo sonno apatico! E in questo momento il grande scrittore, che con le sue creazioni meravigliosamente artistiche e profondamente vere contribuì così potentemente all’autocoscienza della Russia, dandole l’opportunità di guardarsi come in uno specchio, arriva con un libro in cui, in nome di Cristo e della Chiesa insegna al proprietario terriero barbaro come sfruttare di più i contadini, gli insegna a opprimerli di più… E questo non avrebbe dovuto indignarmi?.. […]

E l’espressione: “Oh, muso non lavato!” Ma a che scopo l’hai ascoltata da Nozdryov, da Sobakevich, per trasmetterla al mondo come una grande scoperta a beneficio ed edificazione dei contadini che, senza la coscienza della propria dignità, non si lavano perché, avendo creduto alla inevitabilità delle loro catene, non si lavano perché non si considerano persone? […] Predicatore della frusta, apostolo dell’ignoranza, paladino dell’oscurantismo e della reazione, panegirista della morale tartara – che fai! Guarda sotto i tuoi piedi, perché stai sopra l’abisso…» (3 luglio 1847)

Belinskij morirà il 7 giugno 1848.

 

ROMA, NOTTE TRA IL 14 E IL 15 APRILE 1987. «Uscì di casa in punta di piedi per non svegliare il fratello e in una fuga priva di testimoni, protetta dalle tenebre, si dissolse nel nulla. Aveva settantarè anni. Si chiamava Federico Caffè. Era professore fuori ruolo di Politica economica e finanziaria alla facoltà di Economia e commercio dell’Università di Roma. Godeva di un grande prestigio intellettuale ed esercitava notevole fascino, soprattutto sugli studenti. benché, fisicamente, lasciasse molto a desiderare. Piccolo di statura. Anzi piccolissimo.» Abbandona sul tavolino accanto al letto l’orologio, gli occhiali, le chiavi sia di casa che della facoltà, il passaporto, il libretto degli assegni.

Nel giugno dell’84 Caffé tiene la sua ultima lezione: «Il quadro che traccia dell’Italia che lo circonda è di un pessimismo quasi assoluto. Ė un’Italia attraversata da “chiari e insinuanti inviti ad arricchirsi”, ad anteporre il proprio tornaconto a qualsiasi valore o ideale. Ė un’Italia affascinata, come tanta altra parte del mondo industrializzato, da “istanze deregolamentatrici, benché il nostro paese sia sprovvisto di ‘validi argini nei confronti delle forme più vistose di fallimenti del mercato” (che è soltanto un bell’eufemismo per dire che in Italia non c’è lo stato, per cui se scoppia il mercato nulla potrà salvarci dal baratro.) […]

Sylos Labini dice che per intuire qualcosa della “tempesta che ha indottto Federico Caffè a compiere il più radicale dei gesti che un uomo possa compiere può essere utile guardare dentro se stessi. “Le cose della mia vita,” spiega, “vanno in maniera abbastanza soddisfacente. Tranne per il rimpianto per gli anni che passano, non ho molti motivi per lamentarmi. E tuttavia, giorno dopo giorno, mi sento sempre più risucchiare da una sorta di doloroso vortice: gli inglesi lo chiamano social-despair, la disperazione sociale, il vuoto che ti procura lo sconforto per una battaglia che il più delle volte ti capita di sentire come irrimediabilmente perduta, in cui gli onesti ti appaiono sempre più pochi, disarmati e pavidi e i disonesti più sfontati e aggressivi.

Io, per temperamento, sono portato a reagire, e reagisco, continuamente. Anche Caffè reagiva. Ma lui, ecco, reagiva inasprendo le sue posizioni, spostandosi sempre più a sinistra, aggredendo con grinta un po’ donchiscittesca istituzioni come per esempio la Borsa oppure prendendo le distanze da scelte come quella dell’integrazione economica europea che, a suo giudizio, avrebbe nel tempo sempre più irrobustito i forti e sempre più indebolito i poveri.” […]

Caffè non crede nella rivoluzione, nella possibilità di creare una società perfetta. Non crede che al regno della “necessità” possa far seguito, un giorno, un mitico regno della “libertà”. Le palingenesi non lo incantano. Il conflitto, per lui, è qualcosa di costitutivo dentro di noi, si inscrive nella stessa intelaiatura originaria della condizione umana, in quell’inconscio dove si mescola di tutto: il bene, il male, l’avidità, l’egoismo, la generosità, la ferocia, l’ambizione, l’invidia, la pietà, e chi più ne sa, più ne aggiunga.» (da Ermanno Rea, L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato.)

In una intervista a Valentino Parlato disse: “Prova scegliere un punto d’osservazione che ti consenta di capire che al mondo non c’è soltanto chi privilegia l’opportunità rispetto alla verità, ma anche chi si applica in maniera così esclusiva alla verità da non essere neppure sfiorato dall’idea che possano esistere altri fattori in campo.”

 

INTERPRETAZIONE DI DUE MACCHIE. Étienne de La Boétie scrisse il suo Discorso sulla servitù volontaria intorno al 1549; il testo circolò clandestinamente per molti anni e fu pubblicato solo nel 1576. La Boétie vi scrive: «La libertà è la sola cosa che gli uomini non desiderano affatto, o almeno così sembra, per la semplice ragione che se la desiderassero l’avrebbero; come se rifiutassero questo bel guadagno, soltanto perché troppo facile da ottenere.»

“Nel 1864  Dostoevskij pubblicò sulla rivista “Epocha”  un romanzo breve intitolato Memorie del sottosuolo, nel quale a un certo punto si legge: «Io son poi da solo, e loro sono tutti».

LIbertà. Ecco il motivo per cui la rifuggiamo come la peste. Per quanto teoricamente essa sia anche “troppo facile da ottenere”, nelle due macchie di Rorschach che queste vicende rappresentano, noi vediamo il prezzo che inevitabilmente comporta l’essere liberi: una profonda, radicale, inesprimibile, coerente solitudine.

Nell’mmagine in testata: Russia Beyond (MAMM/MDF/russiainphoto.ru; Dominio pubblico) – A seguire: disegno di B. Pokrovskij dei condannati davanti al plotone – Il brano di Jackson Browne Late for the Sky è contenuto dell’album omonimo (1974)  e compare nella colonna sonora del film di Martin Scorsese Taxi driver (1976).

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