VITALIANO TREVISAN. “Me ne vado, lascio per sempre alle mie spalle tutto questo schifo cattolico democratico artigiano industriale. Lascio per sempre questo disgustoso buco di provincia, pieno solo di persone ottuse pericolose e pericolosamente malvagie”.
«La voce di Vitaliano Trevisan – trovato morto in solitudine venerdì 7 gennaio nella casa che abitava da qualche anno nell’alta Valle del Chiampo, in provincia di Vicenza – era insieme nitida e contorta, capace di dire il tragico dell’esistenza con la precisione di un cesellatore, che non trascura nemmeno il minimo dettaglio nel tentativo di corrispondere alla durezza e alle asperità del reale. Persino beckettianamente divertita dall’insensatezza del mondo e della vita, quella voce era tesa, tagliente, insieme cupa e ironica, visceralmente ossessionata dalla necessità di essere vera, di smascherare, attraverso un rigore insieme sintattico ed etico, le menzogne ideologiche, i trucchetti che tutti noi mettiamo in atto al fine di renderci sopportabile il mondo.» (Luca Illetterati – il Manifesto, 9 gennaio 2022)
«Quella specie di fottuta grande famiglia, che a suo tempo mi aveva rifiutato, chiudeva i battenti e lasciava a spasso tutti quegli operai e quegli impiegati che incontravo ogni giorno in paese, e in parte conoscevo personalmente, sempre pronti a lamentarsi per questo o per quello, ma al tempo stesso così sicuri del loro lavoro, del fatto che mai sarebbe venuto a mancare, come se lavorare in quella cazzo di fabbrica equivalesse a un lavoro statale. Avevo sempre l’impressione che mi guardassero e mi parlassero con una certa condiscendenza, come se fossi un animale strano, visto che io un lavoro sicuro non l’avevo, e anzi continuavo a cambiarne uno dopo l’altro, senza mai riuscire a tenerne nessuno.
A pensarci bene, non era affatto una mia impressione, ma semplicemente un atteggiamento naturale, per quanto inconscio, degli uomini e delle donne che appartengono interamente, senza rendersene conto, a un’impresa industriale, a una cooperativa, un sindacato o all’apparato statale, e sono dunque «dentro» a tutti gli effetti, e perciò in certo qual modo in pace, al riparo dai conflitti, nel momento in cui vengono in contatto con noi, che non siamo né dentro né fuori, perché, pur non volendo esser «dentro», non ci è comunque possibile essere del tutto «fuori», dato che un fuori non esiste, ma appartenendo a un’idea — nel nostro caso a un’idea di letteratura, a cui ora, dopo esserci nel frattempo circumnavigati, ovviamente non crediamo più, pur continuando comunque a perseguirla con cieca ostinazione — e non a un qualsivoglia gruppo di lavoro, siamo condannati a essere perennemente in contrasto, e di conseguenza perennemente preda della nevrosi e del conflitto, in una società che legittima pienamente solo chi si adatta, e si abbandona all’inevitabile inerzia… (Vitaliano Trevisan, Works – Einaudi, 2022)
LOUIS-FERDINAND CÉLINE (pseudonimo di Louis Ferdinand Auguste Destouches). «22-23 luglio 1935. Céline è a Badgaisten, in albergo, con due sue amanti, Luciene Delforge e Cillie Ambor. Luciene è pianista e prende lezioni da un maestro. Cillie li ha raggiunti da Vienna. Le due donne fanno gite in montagna. Céline si annoia, si esaspera. La “regolarità della vita”, nella sua variante alberghiera e prealpina, non fa per lui. In quei giorni, Cèline aveva anche continuato la sua corrispondenza, sempre più irrisolvibile, con Élie Faure. E fu l’occasione per dire che cosa pensava del popolo:
“Caro Élie, in tutto questo la disgrazia è che non c’è un “popolo” nel senso commovente in cui lei lo intende, non ci sono che sfruttatori e sfruttati, e ogni sfruttato non chiede che di diventare sfruttatore. Non capisce altro. Il proletariato eroico ugualitario non esiste. È un sogno vacuo, una fandonia, da qui l’inutilità, la scicchezza assoluta, nauseante di tutte quelle immaginette imbecilli, il proletario in tuta blu, l’eroe di domani, e il malvagio capitalista, tronfio con la catena d’oro. Sono pattume sia l’uno che l’altro.” E Céline aggiungeva alla fine anche una notazione che tocca l’essenza della letteratura: “Bisogna darsi interamente alla cosa in sé, né al popolo né al Crédit Lyonnais, a nessuno”. (da Roberto Calasso, L’innominabile attuale – Adelphi, 2017)
WALTER SITI. «L’epoca in cui viviamo preferisce la velocità alla qualità, la trasversalità alla linearità, la mobilità di superficie alla profondità – preferisce giudicare direttamente piuttosto che farsi spiegare le cose dagli esperti e dà per scontato che il posto dove si riversa più gente sia il posto migliore. Se questa è la situazione a cui ci ha portato la tecnologia (verso un individualismo senza identità), anche l’arte ha bisogno di un piccolo lavoro di di restyling per arrivare a tutti. […] mi nasce qui spontanea una domanda vecchia, di quelle che si facevano prima che crollassero i Muri e le Torri: fino a che punto la struttura economica, e la omologa configurazione politica, determinano le forme artistiche di un’epoca?
Diamo pure per scontato che il romanzo e la poesia come li si è intesi finora nella tradizione occidentale, con la loro ormai insostenibile lentezza, la loro pretesa di complessità e di interpretazioni, la loro arroganza di solitaria ambiguità e di voler essere giudicati interi, siano diventati un prodotto di nicchia come i vinili e la pellicola fotografica; si può almeno avanzare il dubbio che “fare del bene” in pillole con la letteratura possa condurre a qualche pratica controproducente? Di opposizione superficiale, magari, ma di sostanziale subalternità al sistema? Sì, da retrogrado dubito che lo spezzettamento favorisca l’universale, e sono certo che la terapia personale non può travalicare i propri limiti ergendosi a significato del mondo. da retrogrado pedante, tanto vale che io ricordi l’Alexander Pope del Saggio sulla critica (1711), là dove raccomanda di bere a fondo dalla fonte delle Muse oppure di non assaggiarla affatto, perché “shallow draughts intoxicate the brain“: sorsi brevi intossicano il cervello. (Walter Siti – da Contro l’impegno, Rizzoli 2021)
THOMAS BERNHARD. Ultimo fra i romanzi di Thomas Bernhard, “Estinzione” è anche quello dal respiro più vasto, dove l’orchestrazione sottile e ossessiva della sua prosa raggiunge l’esito supremo. Come se Bernhard avesse voluto riprendere, una volta per sempre, tutto ciò che aveva oscuramente nutrito la sua «arte dell’esagerazione». E già nel titolo si può avvertire tale furia liquidatoria.
Dalla lontana specola di una Roma solare e felice, dove si è rifugiato per sottrarsi alla persecuzione, alla soffocazione familiare, il narratore getta uno sguardo esacerbato sulla tetra Wolfsegg, feudo avito nell’Austria superiore toccatogli in eredità in seguito all’improvvisa morte dei genitori e del fratello. «Roccaforte dell’ottusità», Wolfsegg è il luogo geometrico di quel «complesso dell’origine» che marchia a fuoco l’esistenza del protagonista.
Stupidità del padre, incultura, ipocrisia della madre, supino opportunismo del fratello, beffardo disprezzo da parte delle sorelle, insofferenza per ciò che porta il segno dello spirito. Inoltre: complicità della famiglia con le SS, prima e dopo il Terzo Reich, in un inestricabile intreccio di risentimenti, di cattolicesimo bigotto e fanatico nazionalsocialismo: tutto questo significa l’origine. Come è possibile farne defluire il veleno? Anche il più drastico rifiuto finisce per innalzare fortezze e pinnacoli di parole che aspirano a sostituirsi, in una sorta di annientamento verbale, alla realtà dominante: «perché il mio resoconto è lì solo per estinguere ciò che in esso viene descritto, per estinguere tutto ciò che intendo con Wolfsegg, e tutto ciò che Wolfsegg è, tutto». (dalle note di copertina)
ZIBALDONE. Totus mundus agit histrionem (Tutto il mondo è un palcoscenico, siamo tutti attori) É una formula stoica poi ripresa da Giovanni di Salisbury nel medioevo; era scritta sul frontone del Globe Theatre dove recitava William Shakespeare, poi bruciato in un incendio.
Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga: nel penultimo capitolo (parte quarta, IV) quando Gesualdo viene a sapere della gravità della sua malattia si mette a bastonare anatre e tacchini, a strappare germi e sementi. Se non possono più essere suoi, non saranno di nessun altro.
Secondo Leopardi il nostro stesso stare insieme genera le condizioni della violenza: «La comunicazione tra gli uomini si fonda proprio sul falso, sull’artificio, su deformazioni interessate: il successo spetta alla simulazione, all’incongruenza tra parole e comportamenti: “il mondo parla costantissimamente in una maniera, ed opera costantissimamente in un’altra.”» (Pensieri)
«… possedere una doppia personalità spirituale non è più, da un pezzo, una bravura di cui solo i matti sono capaci, ma […] col ritmo dei nostri tempi, la possibilità di giudizio politico, la capacità di scrivere un articolo di giornale, la forza di credere a nuovi indirizzi dell’arte e della letteratura e innumerevoli altre cose sono fondate esclusivamente sull’attitudine a convincersi per un certo numero di ore contro le proprie convinzioni, a scindere una parte del contenuto della propria coscienza e a gonfiarlo sino a farne una nuova convinzione perfetta.» (Musil – L’uomo senza qualità, parte seconda, 86)
Nietzsche osservava che gli abitanti della modernità laica, dopo aver ucciso Dio, non potevano vivere senza di lui. Al suo posto avevano inventato una serie di nuove divinità: la Cultura, la Scienza, il Commercio, lo Stato, il Sé. L’individualismo è diventato il nostro valore più alto e l’obiettivo del nostro impegno. Il miglioramento educativo, estetico e finanziario e la necessità di una convalida degli altri formano quell’aria perfezionista che oggi tutti respiriamo. (Josh Cohen, La trappola della perfezione, «1843 The Economist», 10 agosto 2021)
Nel clown: «La misteriosa circolazione tra i differenti livelli dell’esistenza, l’attraversamento di soglie proibite, il superamento dei limiti, il contatto che si stabilisce tra i contrari». (Jean Starobinski) Solo il clown può quindi rivendicare per sé questi privilegi quasi impunemente.
La più stupida ottusità è quella di giudicare ciò che non si conosce e non si capisce, poiché quasi sempre non si capisce proprio ciò che per ignavia non si vuole conoscere oppure si finge di non vedere. E poi ti dicono: «Dai adesso non esagerare…»
Ma avremo poi davvero esagerato?