Etica pret-a-porter

Lo scrittore Luca Ricci ha recensito sul Domani del 20 settembre 2023 (titolo: Per tenere il passo del mondo la scrittura deve essere veloce) il libro di Michael Bible, “L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” (Adelphi, 2023). L’articolo inizia così:

«La velocità è uno dei problemi che la letteratura dovrebbe affrontare per stare al passo coi tempi. Mi spiego: laddove la critica vorrebbe la velocità come un elemento deteriore, un impoverimento della lettura ridotta al turning page (quel voltare pagina da consumismo culturale e bulimia editoriale), c’è invece un autentico bisogno da parte del lettore di scritture contemporanee, capaci di tenere il passo della realtà. Insomma, dopo il diluvio universale della rete e delle sue nuove forme di fruizione, il paradigma del romanzo di una volta, orizzontale, statico, digressivo e pachidermico, non regge più. […]

Nella descrizione di un mondo la scrittura ha sempre mostrato tutti i suoi limiti, svelando, per così dire, la sua natura sintetica e lineare. Il mondo non potrà mai essere catturato davvero dalla scrittura, in quanto ogni suo aspetto è mobile mentre la scrittura è fissa, dà luogo a una ingessatura. Il mondo percettivo è infinitamente più vasto e dinamico della scrittura, che da par suo può e deve selezionare solo una serie di tratti. Descrizioni troppo dettagliate del mondo non fanno che peggiorare la situazione, volendo colmare qualcosa di incolmabile. Mai come oggi è vero, e nessuno come Bible sembra averlo colto. […]

Non è tanto il numero di pagine a determinare la velocità o la lentezza, quanto l’approccio generale, o la premessa iniziale da cui si inizia a scrivere: quella, essenziale, di non poter rinunciare a bruciare le forme passate, quella di essere tutti consapevolmente figli del proprio tempo.» Sostenere che il paradigma del romanzo di una volta non regga più ci pare un filo azzardato e presuntuoso, soprattutto alla luce del livello medio della letteratura contemporanea.

Bisogno di scritture contemporanee… Tenere il passo con la realtà… Ricorda l’elogio della velocità di marinettiana memoria e dei tempi del futurismo.  La questione ci pare a dir poco scivolosa. Ogni ipocrita opportunista che si rispetti, infatti, non manca mai di dichiararsi “figlio del proprio tempo.” In particolare quei figli che – di riffa o di raffa – hanno raggiunto almeno temporaneamente un certo “successo.” E allora cambiamo campo e facciamo un esempio particolare tratto dalla cultura architettonica.

Secondo Ernesto Nathan Rogers la vera forza delle opere di grandi architetti italiani del Novecento come Ridolfi, Gardella, BBPR, Albini, Samonà, Michelucci, Piccinato è stata «quella di aver inteso il Movimento Moderno come “rivoluzione continua”, vale a dire come continuo sviluppo del principio di aderenza ai mutevoli contenuti della vita.» Senonché tocca prendere atto che lo stesso principio (di aderenza ai mutevoli contenuti della vita) è stato poi applicato dai diversi professionisti in giro per il mondo e nel corso del tempo secondo modalità antitetiche l’una con l’altra. L’architetto americano Philip Johnson, ad esempio, ne dedusse quanto segue: «I giorni dell’ideologia sono fortunatamente finiti, lasciateci celebrare la morte dell’idea fissa. Non ci sono regole, solo fatti. Non c’è ordine, solo predilezioni. Non ci sono imperativi, solo scelte.» (1992)

Ecco fatto. Da qui al procedere fischiettando con indifferenza sulla strada (lastricata di buone intenzioni, ovvio) degli affari propri, trascurando sistematicamente il carico di responsabilità etica e sociale, il passo è molto breve; anzi, quasi automatico. Infatti: «In Philip Johnson si potrebbe facilmente vedere il “campione” dell’architetto americano privo di qualsiasi ideale che non sia quella dell’affermazione di sé e della soddisfazione dei desideri della sua facoltosa clientela […] In effetti, l’opera di Johnson è costituita in buona parte di questo, oltre che di “numerose realizzazioni che hanno semplicemente l’ambizione di accompagnare docilmente ciò che l’epoca propone, quanto l’opinione pubblica accredita al successo e le mode prediligono.» (Marco Biraghi)

Ma guardiamoci seriamente attorno: davvero qualcuno sente la mancanza di altri “figli del proprio tempo”? Pare al contrario di assistere alla consueta pletora di inseguitori del carro del vincitore, di non disturbatori del manovratore, qualunque esso sia. Casomai bisognerebbe al contrario porsi molte domande sul livello qualitativo del nostro indiscusso modello di convivenza sociale e culturale, al cui graduale abbassamento  stiamo tutti contribuendo. Soprattutto per timore delle critiche, dell’isolamento e della solitudine che purtroppo ne consegue. Combattere l’imperante incredulità rispetto ad (anche) utopistici progetti di innalzamento dell’asticella sarebbe invece l’unica possibilità per perseguire un reale progresso dell’intera collettività.

Ma come scrisse Diderot: «L’incredulità è a volte il vizio di uno sciocco, e la credulità il difetto di un uomo di spirito. L’uomo di spirito vede lontano nell’immensità dei possibili. Lo sciocco non vede altro possibile che quello che è. È forse questo che rende l’uno pusillanime e l’altro temerario.» Purtroppo, la paura della solitudine non è mai stata diffusa come oggi, nel tempo delle illusioni “social” a buon mercato, della velocità e dell’imperante familismo amorale. Per quanto veloci essi siano ad “adeguarsi al proprio tempo”, di altri ignavi pusillanimi non si sente affatto la mancanza.

Il brano How to Fight Loneliness  dei Wilco è tratto dall’album Summerteeth del 1999 (Traduzione del testo: Come combattere la solitudine?/Sorridi tutto il tempo/Fa brillare i tuoi denti fino a diventare insignificante/E affinali con le bugie/E qualsiasi cosa succeda/Ti seguiranno dappertutto/È così che si combatte la solitudine/Ridi ad ogni battuta/Trascina la tua coperta ciecamente/E riempiti il cuore di fumo/E la prima cosa che vuoi/Sarà quella che ti servirà di meno/È così che la combatti/Sorridi tutto il tempo e basta/Sorridi tutto il tempo e basta…) – Il ritratto di Marcel Proust è di Jacques Émile Blanche (1892, Parigi, Musée d’Orsay)

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