Nella premessa al suo romanzo La schiuma dei giorni, Boris Vian ha scritto del romanzo stesso: «la storia è interamente vera, perché io me la sono inventata da capo a piedi.» È un’affermazione paradossale, ma assolutamente giusta: si possono infatti scrivere cose realistiche dicendo falsità, così come si possono scrivere racconti privi di qualsiasi dimensione realistica o di verosimiglianza che dicano verità profonde sulla condizione umana. «Quando si parla di prosa letteraria o addirittura di scrittura poetica, verità non significa necessariamente realismo o anche solo verosimiglianza. Non significa raccontare fatti davvero accaduti. Significa piuttosto concepire testi veritieri sulla condizione umana, perché compito della letteratura è dire la verità con lo strumento della finzione. […] Bisogna infatti chiarire che finzione (intesa in questo caso come creazione, rappresentazione, invenzione) è concetto assai diverso – in qualche modo opposto – rispetto a falsità.
«Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza». Sono parole del filosofo John Searle, teorico del rapporto fra linguaggio e realtà istituzionali. Le società vengono costruite e si reggono, per Searle, essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto, cioè, che formulare un’affermazione comporti un’impegno di verità e correttezza nei confronti dei destinatari. Non osservare questo impegno mette in pericolo il primario contratto sociale di una comunità, cioè la fiducia in un linguaggio condiviso. Le società nelle quali prevalgono le asserzioni vuote di significato sono in cattiva salute: in esse, alla perdita di senso dei discorsi, consegue una pericolosa caduta di legittimazione delle istituzioni. Occuparsi del linguaggio pubblico e della sua qualità non è dunque un lusso da intellettuali o un esercizio da accademici. È un dovere cruciale dell’etica civile.
Se ti capita di aver fatto il magistrato e il parlamentare, e di scrivere libri, ti capita anche, piuttosto spesso, di sentirti chiedere cosa abbiano in comune (se hanno in comune qualcosa) questi tre lavori. La risposta è che queste tre attività così diverse fra loro hanno tutte a che fare con le parole e la verità. Meglio: con il potere delle parole e il dovere di usarle responsabilmente per dire, in forme e contesti diversi, la verità. […] Scrivere bene, in ogni campo, ha infatti un’attinenza diretta con la qualità del ragionamento e del pensiero. Implica chiarezza di idee da parte di chi scrive e provoca in chi legge una percezione di onestà. (Gianrico Carofiglio: Con Parole precise. Breviario di scrittura civile – Editori Laterza, 2015)
Come scrisse Ludwig Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus (prop. 5.6): «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo.» Più chiaro di così…
Tutta un’altra faccenda invece l’altra faccia della medaglia, quella oscura: che riguarda i personaggi falsi, i bugiardi, gli ipocriti, gli arroganti, i prepotenti, i manipolatori; per arrivare fino agli aspiranti tiranni o addirittura ai dittatori. Per fare un esempio “a caso”: già nel 2016 PolitiFact , un sito web collegato al quotidiano Tampa Bay che è nato nel 2007 ma che già allora vantava un premio Pulitzer, ha messo nel 2016 Donald Trump in cima alla lista dei politici più bugiardi d’America. «PolitiFact ha vivisezionato 163 dichiarazioni di Trump e ha stilato questa classifica: sono risultate vere solo 3 affermazioni, ovvero il 2 per cento, e abbastanza vere 12 (7 per cento). Le altre 148 (91 per cento del totale) fanno sprofondare Trump nell’ottavo cerchio dell’Inferno, quello riservato ai bugiardi, se dovessimo prendere in parola Dante Alighieri: 24 affermazioni sono soltanto mezze verità, 27 sono per lo più false, 88 sono totalmente false. E, ciliegina su questa torta, 31 sono falsità che gli americani definiscono “pants on fire”, letteralmente pantaloni in fiamme, ovvero bugie così grossolane da sprofondare direttamente nell’Inferno dantesco.» (Espresso.it)
Venendo alla cronaca più recente: era ancora in corso lo spoglio delle schede elettorali delle elezioni presidenziali USA 2020, quando Brian Williams, Shepard Smith, Jake Tapper, Lester Holt anchorman di Nbc, Cbs, Abc, Cnn (e altre reti televisive) hanno deciso di togliere la parola a Donald Trump nel momento in cui si accingeva a denunciare non provati brogli elettorali. «Non siamo in Bielorussia». Anderson Cooper, volto noto di Cnn e Cbs, non è riuscito a trattenersi mentre commentava le ripetute richieste di Trump di interrompere il conteggio man mano che vede assottigliarsi il suo vantaggio negli Stati chiave dove vengono aperte le schede arrivate per posta dagli elettori che hanno utilizzato in maniera massiccia questo voto nel mezzo di una pandemia. Poi Cooper e colleghi hanno dato la linea al presidente alla Casa Bianca. La Cnn ha mandato in onda tutto il monologo. Alla fine, in uno studio in cui è calato un silenzio scioccato, Jake Tapper, corrispondente da Washington, ha commentato: «Che triste notte per gli Stati Uniti sentire il presidente che dice certe cose, bugia dopo bugia, dopo bugie sull’elezione rubata, cercando di attaccare la democrazia. Non ci sono prove di quello che sta dicendo. Solo diffamazioni sulla correttezza nel conteggio dei voti. Francamente è patetico». (ilsole24ore.com)
Decisioni e commenti impeccabili, perfetti, inappuntabili. Che però (peccato) non sono mai state prese o pronunciate nei quattro anni precedenti. «La columnist del Washington Post Margaret Sullivan ha ironizzato sul risveglio di cronisti e opinionisti i quali, solo quando è stato ben chiaro che Trump era stato sconfitto e non sarebbe stato in grado di vendicarsi, hanno tirato fuori gli artigli e, in qualche caso, hanno perfino ecceduto nelle manifestazioni di disappunto per i comportamenti tenuti dal presidente degli Stati Uniti nei suoi ultimi attimi alla Casa Bianca. Càpita.» (Paolo Mieli – Corriere della Sera, 9 novembre 2020)
Non mancano di certo esempi del genere “a casa nostra”, (dove nell’agosto 2019 il ministro dell’Interno chiedeva dal Papeete “pieni poteri”): «Non esiste nessuna contea degli Stati Uniti nelle quali ci siano stati più voti che votanti. L’informazione fornita da Matteo Salvini venerdì scorso, in chiusura di questa trasmissione, era una notizia falsa. Punto e basta». Questa è la puntuale rettifica di Simone Spetia, conduttore di 24 Mattino su Radio 24, che rappresenta una difesa efficace del diritto vitale dei cittadini alla corretta informazione, ora più che mai minacciata dalla bomba atomica delle fake news. Il senatore del Carroccio aveva infatti insinuato il sospetto che ci fossero brogli elettorali, cavalcando la tesi di Donald Trump: “Il fatto che in alcune contee ci siano più voti che elettori, più schede che cittadini, qualche dubbio giustamente lo fa venire. Che si stiano fermando e ricontando mi pare necessario, perché è come se a Milano ci fossero due milioni di voti quando siamo un milione e 200mila.” La notizia riportata da Salvini si è poi rivelata una bufala, come ribadisce Spetia, che la definisce “l’ennesima teoria cospirazionista sulle elezioni americane.”
Sorvoliamo per umana pietà su Silvio Berlusconi e la famosa favola della “nipote di Mubarak” (si toccò il fondo la notte del 27 maggio 2010, quando ben 314 deputati votarono che per lo Stato italiano Ruby era davvero nipote del presidente egiziano). Ci pare comunque giusto e necessario specificare che gli specialisti delle bufale non hanno una collocazione politica esclusiva; per esempio, molti giurano che Matteo Renzi (ovunque vogliate collocare il personaggio all’interno dell’arco costituzionale) sia da sempre soprannominato “il Bomba”. Tale maliziosa o addirittura malevola insinuazione non ci pare a prima vista del tutto inattendibile.
Ma attenzione: comunque sia, se è vero com’è vero che nel linguaggio ogni affermazione comporta un’impegno di verità e correttezza nei confronti dei destinatari, l’errore più grande sarebbe quello di credere che queste modalità di comunicazione (tipicamente populiste) siano figlie di approssimazione, che derivino da casualità e imprecisione comunicativa; poi ancora illudersi che le bugie abbiano davvero “le gambe corte”; che quindi alla fine tutte le menzogne saranno presto smascherate dall’oggettivo trionfo della verità e che perciò tutta “la gente” presto ne sarà finalmente consapevole. Niente di più lontano dalla realtà: abbandonando ogni ingenua illusione, è meglio convincersi che tutto questo disonesto apparato di comunicazione, strumentale e distorto, fa invece parte di una precisa – quanto potente – strategia propagandistica; che per di più al momento è pure vincente.
Facciamo un esempio pratico. Il 26 ottobre 2015, Scientific American ha pubblicato un articolo a firma Shannon Hall, dal titolo: Exxon Knew About Climate Change Almost 40 Years Ago (Exxon era consapevole dei cambiamenti climatici già 40 anni fa). Comincia così: «Exxon sapeva dei cambiamenti climatici dal 1977, 11 anni prima che diventasse di pubblico dominio, come dimostra una recente ricerca di Inside Climate News. Questa consapevolezza non impedì all’azienda di dedicare decenni a impedire alla pubblica opinione di venire a conoscenza dei cambiamenti climatici e addirittura di promuovere disinformazione in proposito – una strategia che molti hanno connesso alle bugie diffuse dall’industria del tabacco a proposito dei rischi del fumo.»
William Davies commenta così: «Le ricerche hanno dimostrato che la Exxon è venuta a conoscenza del legame scientifico tra combustibili fossili e cambiamenti climatici nel 1977, quindi ha speso enormi somme di denaro per cercare di nascondere e gettare dubbi su queste prove. Individui che sembravano esperti venivano sfoggiati nei dibattiti pubblici per fornire la loro versione sull’argomento, versione che era stata efficacemente architettata per un guadagno economico. Una scienza fasulla si può demolire. Il problema è che ci vuole del tempo.» La falsificazione della realtà purtroppo troppo spesso funziona perché nella nostra epoca «la velocità della reazione ha spesso la precedenza rispetto a una valutazione più lenta e ponderata […] Le informazioni sono apprezzate più per la rapidità e l’effetto che causano che per la loro neutra oggettività, e notizie false con una forte valenza emotiva a volte viaggiano più veloci dei fatti.» […]
«L’informazione viene valutata per la sua velocità oltre che per la sua credibilità pubblica. È un modo nuovo di affrontare la questione della verità, spesso in contrapposizione all’originale ideale scientifico di ragione e competenza […] L’enfasi sulla conoscenza in “tempo reale” che si privilegiava originariamente in guerra è ormai tipica del mondo del business, in particolare della Silicon Valley. La velocità della conoscenza e del processo decisionale è diventata cruciale e il fatto che ci sia convergenza di opinioni è passato in secondo piano. Piuttosto che fidarci degli esperti sulla base della loro neutralità e del loro essere al di sopra delle parti, ci affidiamo ormai a servizi che sono immediati, ma il cui status pubblico non è chiaro. […]
Una simile frattura riflette qualcosa che riguarda il ruolo della velocità nella nostra politica. Amministrare e stabilire dei fatti può essere un lavoro lento e frustrante. Spesso può apparire insensibile o indifferente rispetto alla serietà dei bisogni e dei sentimenti nell’immediato. Il populismo si rivolge a un desiderio di cambiamento che sopraggiunge all’istante, a un ritmo quasi militare, sfuggendo ai vincoli della ragione e al bisogno di raccogliere prove. I fallimenti della politica tecnocratica sono seri e reali, ma il pericolo è che vengano sfruttati da movimenti politici per cui conta soprattutto la rapidità, eliminando processi inevitabilmente lenti come la raccolta di prove o il consenso democratico. Ciò che i giganti della Silicon Valley condividono con il fascismo è la loro insistenza a voler risolvere i problemi subito, senza preoccuparsi di discuterne. Questa mentalità gode oggi di una popolarità crescente. […]
La netta separazione tra “ragione” ed “emotività” non funziona più, perché l’idea di Cartesio di una mente razionale separata dal corpo è morta. Possiamo però operare ancora distinzioni tra diverse velocità di reazione e cercare di difendere la lentezza. Le reazioni impulsive possono essere spaventose e aggressive, mentre reazioni più caute possono essere più comprensive e attente al contesto. I fenomeni noti come fake news e “post verità” sono in realtà solo sintomi di discussioni che accelerano fino al punto in cui sono possibili solo giudizi superficiali. Chi si occupa di fact-checking può arginare queste forze nel breve periodo, ma il più ampio compito di costruire e salvaguardare sfere più lente di discussione spetta alla politica. La lingua non deve più essere utilizzata come arma e tornare a essere uno strumento per fare promesse, se la democrazia deve apparire ed essere meno guerresca in futuro. Ma questo sarà praticabile solo se l’urgenza della nostra situazione sociale, economica e ambientale verrà presa sul serio e se i sentimenti che quella situazione suscita verranno riconosciuti.» (William Davies: Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo – Einaudi Stile Libero Extra, 2019)
Edward W. Said ha scritto: «Il vero intellettuale è essenzialmente laico. Sebbene molti vogliano far credere che le loro rappresentazioni riguardino cose più elevate o i valori supremi, la moralità coincide con l’azione in questo mondo terreno: qui essa ha luogo, qui sono gli interessi da sostenere, qui egli deve orientarsi secondo un’etica coerente e universalista, qui deve scegliere tra potere e giustizia, qui l’azione svela quali siano le scelte e le priorità di ciascuno. In definitiva, gli dèi che sempre falliscono pretendono dall’intellettuale una sorta di certezza assoluta, una visione della realtà totalizzante, senza strappi, che riconosce soltanto seguaci o nemici. […]
Il compito più arduo, per un intellettuale, è di rappresentare attraverso il lavoro e l’azione le idee che professa, senza cedere alla tentazione di acquisire il peso, ma anche la rigidità di un’istituzione; senza trasformarsi in un automa, che agisce su comando di un sistema o di un metodo, quale che sia. Chiunque abbia conosciuto la felicità di riuscirci e anche di riuscire a mantenersi vigile e padrone di sé, sa quanto rara sia una simile consonanza. Vi è un’unica via per conquistarla: ricordarsi sempre che l’intellettuale ha la facoltà di scegliere se rappresentare attivamente la verità al meglio dei propri talenti, oppure lasciarsi passivamente guidare da un padrone o un’autorità. Per l’intellettuale laico, questi dèi sempre falliscono. (Edward W. Said: Dire la verità. Gli intellettuali e il potere – Feltrinelli, 1995)
Perciò è sempre più importante, anzi fondamentale (ripetiamolo) per una crescita sociale e civile, essere consapevoli che finzione (intesa come creazione, rappresentazione, invenzione) è concetto assai diverso – spesso opposto – rispetto a falsità.
Come avverte Gianrico Carofiglio: «La qualità della politica in tutte le epoche e oggi più che in passato, dipende dalle parole che si scelgono per interpretarla, dalle storie che si scelgono per raccontarla e soprattutto dal valore e dalla forza metaforica di queste storie. Le narrazioni politiche — quelle buone e quelle cattive, quelle efficaci e quelle inefficaci — si avvalgono infatti tutte , in modo rilevante, della metafora. […] Ma proprio la sua capacità di ricalcare il modo in cui si formano molti nostri pensieri e molte emozioni fa della metafora anche un insidioso, potentissimo mezzo di manipolazione.»
Occorre consapevolezza; occorre poi che tutti noi prestiamo molta attenzione ai meccanismi informativi, che ci facciamo carico delle nostre responsabilità. Al solito, il problema è culturale. Come ha scritto Primo Levi: “È accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo…” Non vorremmo che per la democrazia e la società civile, per usare una metafora, suoni ancora una volta la campana.