Fuori dal coro

Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore e regista, fu ucciso il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia.

Le parole che seguono sono tratte dall’orazione di Alberto Moravia ai suoi funerali, il 5 novembre 1975 a Roma:

«Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro. […] Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualchecosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto.»

Ma l’Italia reale, molto più reale di quella auspicata da Pasolini e Moravia, purtroppo, è quella rappresentata da Giulio Andreotti. Questa intervista è stata rilasciata nel 1986. La domanda del giornalista è: «Onorevole Andreotti, Pasolini ha avuto molti processi; con l’occhio di oggi, lei pensa che Pasolini era un perseguitato?» Risposta:

«Ma vede, lui andava cercandosi dei  guai, per la verità. Non parlo adesso della sua opera, ma anche un po’ della sua vita spicciola, ed allora è chiaro che sia stato, a mio avviso, un po’ forzato, sia il dargli addosso giudizialmente – in fondo ci sono delle persone di cultura che vanno giudicate dalla storia e dal tempo più che non dagli strumenti che sono validi per la gente comune, così… – però è stato anche molto esagerato a mio avviso il volerne fare una specie di simbolo politico. Anche perché, fra l’altro, quegli stessi che lo eleggevano a simbolo poi si trovavano contraddetti dalla medesima attività. Pasolini andava preso per come era. Una delle cose più belle sue fu una poesia rivolta al papa; questo papa che doveva essere il papa del sottosviluppo, insomma, e quindi di lasciare tutto il resto e di diventare veramente un po’ il capofila di tutti gli emarginati del mondo. Ecco: quelle erano, secondo me, le pagine più genuine, di una sensibilità straordinaria. Per il resto, certo, un po’ di guai li combinava, ma insomma, non era…»

In effetti, macché Pasolini. Guardiamoci intorno: il simbolo politico dell’Italia, ieri come oggi, rimane Andreotti.

In testata: un’opera street art di Ernest Pignon-Ernest

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