Gabbiani e discariche

Come ha scritto Vladimir Nabokov, «agli artisti minori è lasciato l’abbellimento del luogo comune: essi non si prendono la briga di reinventare il mondo, ma si limitano a spremere il meglio che possono da un ordine di cose prestabilito, dai modelli tradizionali della narrazione. Le varie combinazioni che tali autori minori riescono a produrre entro i suddetti limiti prestabiliti possono avere una certa attrattiva, vagamente effimera, perché ai lettori meno esigenti piace riconoscere le proprie idee presentate in bella veste.

Ma il vero narratore, colui che fa ruotare i pianeti e plasma un essere dormiente e con zelo gli manomette una costola, non dispone di valori predeterminati: li deve creare da sé. L’arte dello scrivere è un’attività futile se non comporta innanzitutto l’arte di vedere il mondo come risorsa potenziale della narrazione. Gli elementi che compongono il mondo possono senz’altro essere reali (per quanto è possibile definire la realtà) ma non formano un tutto univoco: sono caos, e quel caos lo scrittore lo mette in moto, permettendo così al mondo di accendersi con un guizzo e di fondersi, ricombinandosi poi non solo nelle parti visibili e superficiali, ma negli stessi atomi.»

A proposito di autori minori (e di banali pubblicazioni di successo): nel 1970 è uscito il celebre romanzo breve Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach. La trama narra di un giovane gabbiano per il quale il volo è l’unica ragione d’essere; questo lo condurrà alla trasgressione e quindi all’esilio, ma anche all’amore e alla saggezza: «Jonathan Livingston è un gabbiano che abbandona la massa dei comuni gabbiani per i quali volare non è che un semplice e goffo mezzo per procurarsi il cibo e impara a eseguire il volo come atto di perizia e intelligenza, fonte di perfezione e di gioia. Diventa così un simbolo, la guida ideale di chi ha la forza di ubbidire alla propria legge interiore; di chi prova un piacere particolare nel far bene le cose a cui si dedica. E con Jonathan il lettore viene trascinato in un’entusiasmante avventura di volo, di aria pura, di libertà.» (dalle note di copertina)

«Best seller in molti paesi del mondo negli anni settanta, diventato per molti un vero e proprio cultJonathan Livingston è essenzialmente una favola a contenuto morale e spirituale. La metafora principale del libro, ovvero il percorso di autoperfezionamento del gabbiano che impara a volare/vivere attraverso l’abnegazione, il sacrificio e la gioia di farlo è stata letta da diverse generazioni secondo diverse prospettive ideologiche, dal cattolicesimo al pensiero positivo, l’anarchismo cristiano e la New Age.» (da Wikipedia) L’autore dedica il romanzo “Al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di tutti noi”.

In una recensione uscita nel 1972, la critica e scrittrice Beverly Byrne scriveva: «Questo gabbiano è un Siddharta atletico che si fa di latte in polvere e che mastica il Corano tradotto da Bob Dylan». Sottolineava inoltre che la pluralità di fonti di ispirazione ­- il buddhismo, l’Islam riveduto e corretto all’americana, i “paradisi artificiali offerti nella sua versione innocua, ecc. ecc. – sono tra di loro filosoficamente incompatibili. «Il percorso spirituale del gabbiano finisce insomma per risultare inautentico e pretestuoso.» A nostro modesto parere, anche un po’ melenso e moralista.

In altre parole Richard Bach, spremendo il meglio che poteva da (vari) modelli tradizionali della narrazione, ha presentato in bella veste ai lettori meno esigenti le loro stesse (presunte) idee. Ci domandiamo tuttavia: ma sarà poi vero che un gabbiano Jonathan Livingston esiste nel profondo di ciascuno di noi? Parrebbe una convinzione un tantino superficiale; quantomeno perché l’autore manca poi di affiancarla al dato di fatto che nella realtà quotidiana gli uomini  sono al tempo stesso animati da sordo egoismo, da cupa volgarità, da spirito di prepotenza; il tutto molto spesso mascherata di buoni sentimenti e alte motivazioni ideali. Il che rappresenta un fondale fangoso non esattamente incontaminato. Anche per i gabbiani.

La prima edizione di Les fleurs du mal (Il fiori del male) di Charles Baudelaire era costituito da 100 componimenti e apparve nel 1857 presso l’editore Paulet- Malassis di Parigi. La pubblicazione fu sequestrata dopo pochi giorni e subì un processo per oscenità, cui seguì una condanna pecuniaria e l’ingiunzione di sopprimere sei poesie. Nel 1861 uscì l’edizione definitiva, che comprende 35 nuovi componimenti e si divide in 6 sezioni: Spleen et idéal (Spleen e ideale); Tableaux parisiens (Quadri di Parigi); Le vin (Il vino); Fleurs du mal; Révolte (Rivolta); La mort (La morte).

«I fiori del male traggono poesia dal fango e dall’artificio, dai fantasmi infiniti che attraversano Parigi, dagli esseri marginali che in essa si agitano, vivono soffrendo, amando, cercando qualcosa che non si raggiunge: il poeta sprofonda nelle tenebre e si esalta nella luce, scende nell’abiezione e si innalza verso paradisi per sempre perduti, è attirato dalle più diverse forme del male e della disgregazione e dall’aspirazione ad un bene assoluto ed incontaminato. Esalta Satana come angelo del male e della sconfitta, dà voce all’ossessione del sesso e alle sue perversioni, e nello stesso tempo sente il richiamo di qualcosa di divino e di celeste; la bellezza lo attrae non come immagine di equilibrio e di misura, ma come inutilità, sregolatezza, dilapidazione. E arriva a riconoscerla, al di là delle sue forme tradizionali, anche in ciò che è deforme, corrotto, disgregato.» (Giulio Ferroni)

«Verso coloro che vogliono dare ai parti della loro fantasia un valore educativo, nobilitante, nazionale, o salubre come l’infuso di tiglio o l’olio di oliva, io ho il dente irrimediabilmente avvelenato.» (Vladimir Nabokov) Possiamo dargli torto? Piaccia o meno, la ruvida verità è che molto spesso la grande arte – ammettendo che esista un’arte vera, di valore universale – germoglia e fiorisce anche in ambienti e da persone tutt’altro che luminosi, sereni o virtuosi. Ciò consegue dal fatto che l’artista – esattamente come tutti noi – è solo con se stesso. «E nel momento in cui dà forma alla propria unica e irripetibile visione della vita, nessuna idea collettiva, nemmeno la più nobile e necessaria, è in grado di soccorrerlo, di garantire per lui.» (Emanuele Trevi)

Piaccia o meno, non c’è contraddizione: grande arte è stata prodotta, per esempio, da un regista disgustosamente razzista come D.W. Grigìffith; nel contesto della Guerra Civile Americana, egli venne perfino ritenuto responsabile della rinascita del movimento razzista Ku Klux Klan negli Stati Uniti:

Grande arte nasce pure da un antisemita e filonazista come Louis-Ferdinand Céline, il quale si espresse anche in favore del collaborazionismo della Francia di Vichy con la Germania nazista dopo la sconfitta del1940 e scrisse pamphlet violentemente antisemiti:

O ancora da una regista propagandista di Hitler come Leni Riefenstahl, celebre soprattutto come autrice di film e documentari che esaltavano il regime nazista:

Oppure dal pittore, fotografo, tipografo, architetto e grafico russo El Lissitzky: esponente dell’avanguardia russa, aderì dapprima alla corrente del suprematismo; quando poi Stalin nel 1932 sciolse le associazioni artistiche indipendenti, «si accinse comunque a curare USSR im Bau (USSR in costruzione), una rivista di stampo propagandistico edita in quattro lingue; si occupò nel 1937 della Esibizione Agricola Russa, e gli venne commissionata pure la costruzione del padiglione sovietico all’Esposizione internazionale di Belgrado, nel 1940.» (da Wikipedia)

Potremmo continuare a lungo con esempi di ogni orientamento politico o culturale. Concludiamo citando Tupac Amaru Shakur, famoso rapper noto anche come 2Pac, morto nel 1996.  Il suo album Me Against the World (Io Contro il Mondo) è considerato uno dei più importanti album della storia dell’hip hop. Era ancora adolescente quando affrontò i primi guai con le forze dell’ordine e con la droga; lasciò la scuola poco prima del diploma, andò a vivere in un appartamento abbandonato e cominciò a fare uso di crack. Tra il 1991 e il 1993 Tupac fu coinvolto in diverse risse, ebbe diversi problemi con la polizia e fu coinvolto in una sparatoria ad Atlanta.

Diventò in poco tempo uno dei più influenti artisti della scena statunitense dei primi anni Novanta.Nei suoi testi univa il gangsta rap alla critica sociale. Condannato a quattro anni per violenza sessuale, colpito da cinque colpi di arma da fuoco durante un tentativo di rapina, fu infine ucciso a colpi di pistola nel corso della guerra tra gang criminali rivali in cui era sfociata la rivalità tra gli ambienti hip-hop di Los Angeles e New York. 2Pac non era certo un modello edificante per nessuno. Di lui possiamo dire che non gli piaceva molto l’umanità, anzi per nulla.  Eppure era un grande artista, amava la vita e singole creature. Tra le quali creature c’era senz’altro la sua Cara Mamma, a cui dedicò il pezzo che segue. L’ennesimo, prezioso, fiore del male.

Il brano Dear Mama (Cara Mamma) di 2Pac è contenuto nell’album Me Against the World (1995)

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