Adoro Sandro Veronesi, per questo motivo ne parlerò male.
O meglio: parlerò male della generazione a cui apparteniamo, cioè quella dei nati attorno al 1960 (classe generazionale che condivido con lui, così come la laurea in architettura…). Di conseguenza criticherò anche il suo ultimo libro (Il colibrì – La Nave di Teseo, 2019), su cui invece tutti esprimono grandi elogi: Premio Strega 2020, libro dell’anno 2019 per”La lettura“, ecc. Si tratterà quindi in un certo senso e in una certa misura di una vera propria impietosa autocritica. Cerco di spiegarmi.
Evitando per quanto possibile il rischio-spoiler: «Marco Carrera, il protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, è il colibrì. La sua è una vita di continue sospensioni ma anche di coincidenze fatali, di perdite atroci e amori assoluti. Non precipita mai fino in fondo: il suo è un movimento incessante per rimanere fermo, saldo, e quando questo non è possibile, per trovare il punto d’arresto della caduta – perché sopravvivere non significhi vivere di meno.
Intorno a lui, Veronesi costruisce altri personaggi indimenticabili, che abitano un’architettura romanzesca perfetta. Un mondo intero, in un tempo liquido che si estende dai primi anni settanta fino a un cupo futuro prossimo, quando all’improvviso splenderà il frutto della resilienza di Marco Carrera: è una bambina, si chiama Miraijin, e sarà l’uomo nuovo.» (dalle note di copertina)
Aggiungo solo che Miraijin (che in giapponese significa l’Uomo del Futuro) è sua nipote, figlia di sua figlia; lui invece viene soprannominato colibrì per due ragioni diverse: prima perché da bambino era più piccolo e grazioso della media; poi, da adulto, perché come il colibrì impiega tutta la sua energia per rimanere fermo.
Marco Carrera giustifica in questo modo il suo immobilismo: «Il fatto è che dietro il movimento è facile capire che c’è un motivo, mentre è più difficile capire che ce n’è uno anche dietro l’immobilità. Ma questo è perché il nostro tempo ha conferito via via sempre più valore al cambiamento, anche a quello fine a se stesso, e il cambiamento è quello che vogliono tutti. Così, non c’è niente da fare, alla fine chi si muove è coraggioso e chi resta fermo è pavido, chi cambia è illuminato e chi non cambia è un ottuso. È ciò che ha deciso il nostro tempo. Per questo mi fa piacere che tu ti sia accorta (se ho capito bene la tua lettera) che ci vogliono coraggio ed energia anche per restare fermi.» (pag. 312)
Il linea di principio, un ragionamento che non fa una grinza. Però, però… siamo davvero sicuri che il presupposto teorico di fondo (il cambiamento è quello che vogliono tutti) sia corretto? No davvero! Penso addirittura che sia vero il contrario.
Più avanti nel romanzo, Carrera fa gli auguri alla nipote: «… ed ecco, hai compiuto diciott’anni, sembrerà impossibile, Miraijin, maggiorenne, una giovane donna, bellissima, catartica e sempre più seminale, nel senso che da te, ormai non sarà più un segreto, starà nascendo la nuova umanità capace di sopravvivere alla rovina causata da quella vecchia, da te e da quelli come te, perché il vero cambiamento, l’unico che tuo nonno incoraggerà, sarà che quelli come te, Miraijin, le persone elette, gli uomini nuovi, le donne del futuro, verranno cercati, trovati, radunati e schierati tutti insieme per salvarlo, tanto per cominciare, il mondo, prima di cambiarlo, perché il mondo ormai sarà in pericolo, esattamente come era stato temuto da molti negli anni precedenti, ma non erano stati ascoltati (…)
… e insomma tu, MiraiJin, e quelli come te, verrete reclutati e addestrati a combattere la guerra che nessuno avrà voluto combattere prima, anche se ormai sarà chiaro da tempo che di quello si trattava, una guerra, una guerra feroce tra verità e libertà, tu, quelli come te e tutto il vostro pubblico di bambini e adolescenti (tantissimi), di ragazzi e ragazze (tanti), e di adulti (pochi), e di vecchi (pochissimi), schierati dalla parte della verità, essendo la verità ormai stata trasformata in un concetto ostile, digrignante e imperdonabilmente plurale – le libertà, le infinite libertà in cui quella parola sarà stata smembrata, come la zebra viene smembrata dal branco di iene che la divorano, libertà di scegliere sempre ciò che si preferisce… (Sandro Veronesi: Il colibrì – La Nave di Teseo, 2019; pagg 328-329)
Il discorso a questo punto diventa molto scivoloso sotto diversi punti di vista. Mi limito a considerare quello da cui sono partito, cioè quello generazionale.
Nell’album “La mia generazione ha perso” del 2001 «Gaber fornisce un ritratto, in dodici brani, del malcostume della società moderna, descrivendo quelli che secondo lui sono i problemi della politica e della società, ma il tema principale è quello del ricordo malinconico delle lotte ideologiche della sua generazione, sconfitte dal conformismo generale e dall’ipocrisia. Il brano più indicativo è La razza in estinzione in cui Gaber esprime tutto il disgusto per la moderna società e conclude tristemente, ma con una punta di orgoglio: “possiamo raccontarlo ai figli senza alcun rimorso, ma la mia generazione ha perso“» (da Wikipedia)
La sua generazione ha perso: ciò significa che la sua generazione perlomeno ci ha provato, ha combattuto ma non ce l’ha fatta, a vincere. Banalmente, si può perdere una guerra solo quando vi si partecipa. Giorgio Gaber è nato nel 1939: apparteneva quindi alla generazione precedente alla “nostra”. Ma noi, noi, possiamo per caso dire di noi stessi la stessa cosa? No. Non credo proprio.
Leggiamo Aldo Cazzullo, altro rappresentante della generazione anni ’60:
«Se in America, e non soltanto, la politica è in mano ai settantenni, è perché la generazione cui appartengo non è stata all’altezza. In Italia si è passati da Prodi e Berlusconi a Salvini, Renzi, Di Maio, Meloni. In Francia è spuntato Macron, eletto presidente a 39 anni. In Germania la Merkel non ha successori.
Un po’ ovunque mancano i nati negli anni 60, che si sono formati negli anni 80, quelli del riflusso e dell’individualismo, della febbre del sabato sera e del campionato di calcio più bello del mondo; persino ballare si ballava da soli; altro che impegnarsi in politica.
Mi piacerebbe fare un sondaggio tra i miei coetanei: se hanno ricevuto un attacco ingiusto, una cattiveria gratuita, è quasi sempre da uno della loro generazione. Da una parte, i sessantottini uniti per la vita e per la morte, magari transitando da Mao al liberismo; dall’altra, i trentenni bravi a lavorare in rete e a fare rete, anche se a volte inesperti e inadeguati; in mezzo, quasi niente.» (Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 28 Mar 2020)
Ora, la mia generazione può solo raccontare ai propri figli (nei casi migliori, con qualche rimorso) che non è che abbia perso: non ci ha proprio provato, a dire la sua: non ha partecipato, non ha combattuto, è rimasta ferma a guardarsi l’ombelico aspettando Godot. E a inventarsi narrazioni, viaggi, ideali e avventure vere o presunte, storie psicoanalitiche, novelle personalistiche (per cambiarle, quelle sì, il più spesso possibile) da spargere in giro per il proprio angusto ambiente, nel modo superficialmente più corretto. Ma questo tipo di cambiamento non ha nessun tipo di valore sostanziale. È immobilismo camuffato.
«Il “politicamente corretto”, sostiene Friedman, (Jonathan Friedman: Politicamente corretto (Meltemi ed. sottotitolo Il conformismo morale come regime ) è in primo luogo un problema di disciplina del linguaggio, s’è creato un clima in cui più che alla sostanza dei problemi, si bada alle parole con cui vengono espressi. Si crea così una specie di obbligo ad adeguarsi al pensiero dominante che non ha bisogno di ricorrere all’uso della forza perché l’esclusione sociale in base a ciò che si dice basta da sé a far rispettare il divieto. Con conseguenze pericolose, per esempio quella di nascondere o sfumare un problema, ritardandone la soluzione, nel timore di una sanzione sociale. Il ruolo della “narrazione” (storytelling , in inglese) cioè l’uso di una persuasiva strategia di comunicazione ha preso il sopravvento soprattutto negli ambienti che si definiscono progressisti o “di sinistra” portando a pensare che non esistono più fenomeni sociali oggettivi ma solo “regimi di verità” generati dal linguaggio. (Corrado Augias – la Repubblica 24 giugno 2020)
Italo Calvino nelle sue Lezioni americane (la terza, sulla categoria dell’esattezza) afferma che «siamo sempre alla caccia di qualcosa di nascosto o di solo potenziale o ipotetico, di cui seguiamo le tracce che affiorano sulla superficie del suolo». Molti, troppi di noi credono di averle già trovate, quelle tracce; perciò troppo spesso manca la tensione della ricerca, la volontà di spiegare e di capire, o se c’è è solo recitata, ridotta a spettacolo leggero, a una esibizione del nulla. Guarda caso – oggi come oggi – il più affermato intellettuale italiano esperto e docente della “narrazione” (storytelling in inglese) è ancora e sempre lui, il preside della scuola di scrittura Holden: Alessandro Baricco, classe 1958.
Chiudendo gli Stati generali dell’economia di Villa Pamphilj, a Roma, lo scorso 21 giugno, il presidente Conte disse di essere rimasto colpito da un “discorso molto bello” tenuto poco prima, e prova a riassumerlo: «Abbiamo anche rivolto lo sguardo al futuro. Baricco ha espresso un concetto molto suggestivo: abbiamo aperto all’impossibile il panorama della nostra mente, allargato all’impensabile il raggio della nostra azione. Il piano di rilancio non è una semplice raccolta di riforme: ci siamo resi conto che non è affatto sufficiente riformare il Paese, dobbiamo reinventare il Paese…».
Ecco, appunto.
Tahar Ben Jelloun ha scritto un articolo dal titolo significativo: “Ragazzi, salvateci dal nostro egoismo“: «…No, l’uomo non cambia. Non sono io a dirlo. È Baruch Spinoza, filosofo olandese, (1632-1677): «Ogni essere tende a perseverare nel suo essere». Nessun essere cambia radicalmente. Può correggere alcuni vizi e difetti, può giocare al cambiamento, può fingere, ma la sostanza non cambia e non appena si verifica una situazione grave risale in superficie. Perseverare significa continuare sulla stessa strada, restare risoluti in un’azione. L’uomo è così, e come diceva Orazio «Scaccia pure la tua indole col forcone, ritornerà ugualmente». […]
La resilienza è la capacità di superare gli effetti di uno shock, di una crisi, e allo stesso tempo essere in grado di pensare a un’altra forma di organizzazione sociale. In altre parole, far sì che la prova del Covid 19 diventi una possibilità per ricostruirsi e migliorarsi in una società che è stata colpita indifferentemente dal virus. Io temo che dopo il Covid 19 i francesi, come gli altri europei, proseguiranno coltivando l’oblio di quanto hanno vissuto nei primi mesi del 2020. Il mercato azionario riprenderà, la finanza cercherà di fare soldi, i ricchi riprenderanno le loro abitudini e i poveri si rivolgeranno al cielo per una vita più clemente.
La speranza è nella giovinezza, anche se la maggior parte non è stata colpita dal virus. Questi sono giovani che oggi fanno campagna per un ambiente sano e umano, per un mondo unito e rispettoso della natura. (Tahar Ben Jelloun, la Repubblica 20 giugno 2020).
Ecco, penso che Sandro Veronesi, pur avendo vinto due premi Strega, ha mancato come tutti noi la battaglia generazionale; per egocentrismo. Siamo quasi tutti colibrì (nomadi o stanziali), ma la causa di ciò è quasi sempre molto meno nobile di quanto si tende a raccontare. “La libertà di scegliere sempre ciò che si preferisce…” Oggi, a causa di questa mancanza, personale e collettiva, Sandro Veronesi delega l’incarico del futuro a sua nipote, all’uomo nuovo del futuro, Miraijin. Molto comodo. Utile forse per vincere di nuovo il Premio Strega. Però sarebbe stato molto meglio – prima di inventarsi un nuovo storytelling – scrivere sinceramente a sua nipote: ragazzi, salvateci dal nostro egoismo. “Il tempo continua a scivolare nel futuro: volate come aquile”, voi, e scusateci se potete.