Giù le mani da Philip Roth

UNO.Un maiale che si rotola nel suo sterco“.

Così la scrittrice femminista Meg Elison al Sunday Times descrive Philip Roth. Il “misogino arrabbiato”, lo scrittore fissato con il sesso, il marito che andava a puttane (cinesi), e che ingannò la consorte Claire Bloom dicendole “d’ora in poi castità, ho problemi cardiaci”; intanto – buttate via le medicine – si intratteneva con due amanti. Meno male che il biografo Blake Bailey fu a suo tempo scelto e autorizzato proprio da Philip Roth.

“Come hanno fatto a non capire l’incommensurabile bravura di Philip Roth rispetto a Amanda Gorman?”, diranno di noi i posteri (mentre noi già avvertiamo un bel po’ di imbarazzo, a mettere i due nomi nella stessa frase). Lo diranno leggendo il feroce attacco che un paio di biografie – una non bastava? certo che sì, ma demolire i monumenti è sempre redditizio – sferrano contro Philip Roth.

«La solita orribile farsa, vederla capitare tante volte non la rende meno ridicola, sciocca e malevola. La signorina dello sterco non deve aver mai letto una pagina di Philip Roth, e se per caso l’ha letta dimostra di non avere idea di come sia fatta la letteratura. “Il lamento di Portnoy” o “Pastorale americana” o “Il teatro di Sabbath” sono come certi film clamorosamente belli: se non ti piacciono, è il cinema che non ti piace.

Mentre il Grande Romanziere Americano è sotto tiro, alla voce “poesia” viene coperta di lodi Amanda Gorman, baciata dalla fortuna per la sua composizione recitata alla cerimonia di insediamento del presidente Joe Biden. “The Hill We Climb” ha strappato applausi e lacrime, offrendo alle folle (presenti e virtuali) il brivido della giovane poetessa ispirata e impegnata. […] “Ma davvero pensavano che Amanda Gorman fosse una grande poetessa, e Philip Roth un puttaniere di cui cancellare la memoria?”. Questo si chiederanno i posteri, e faremo la figura degli imbecilli.» (Mariarosa Mancuso – il Foglio Quotidiano, 23 marzo 2021)

Cosa direbbero in proposito Emily Dickinson, oppure Walt Whitman?

DUE. «Lo scrittore è morto solamente tre anni fa, eppure il suo mondo costellato da grandi anticipi, grandi controversie, grandi divorzi e grandi storie sembra già lontanissimo. Una nuova biografia, l’unica autorizzata, lunga 900 pagine fa luce sulla vita di Philip Roth, sottolineando specialmente le parti più controverse, come il modo in cui trattava le donne. È in uscita ad aprile negli Stati Uniti. L’autore prima di morire avrebbe così istruito il suo biografo Blake Bailey: «Non voglio che tu mi redima, voglio solo che tu mi renda interessante». In America su Twitter non si parla d’altro, tutti stanno leggendo le recensioni della nuova biografia, o iniziano a preordinarlo. [….]

L’uomo viene descritto in perenne lotta tra impulso sessuale e impulso alla scrittura. In mezzo ci sono matrimoni, tradimenti, divorzi, pubblicazioni e rifiuti. Roth aveva intenzione di far pubblicare una sua biografia dal ’96, quando l’ex-moglie Claire Bloom pubblicò un memoir in cui lo ritraeva come un pazzo crudele. Buttò giù 300 pagine che però gli amici gli consigliarono  di non pubblicare. Da qui la ricerca di un biografo, anche questa travagliata (su uno dei candidati scrisse un racconto breve, mai pubblicato, intitolato Storia di un pettegolo). Mentre nel 2013 era uscita (da Einaudi nel 2015 in italiano) la biografia, più interessata alle questioni letterarie, di Claudia Roth Pierpont.

Le prime recensioni del libro sono spietate soprattutto con Roth: il Times intitola il pezzo «lo scrittore come un infuriato maniaco di sesso»; The Atlantic si focalizza su quanto sia repellente e imbarazzante il contenuto del libro; il titolo del Guardian fa riferimento a come trattava le donne; The New Republic definisce la biografia come una fantasia di vendetta, spiegando che l’intenzione di farsi immortalare come un grande scrittore mitologico gli si è ritorta contro in un presente in cui non aveva previsto i cambiamenti portati dal #MeToo. Forse, se fosse vivo oggi, Roth si vedrebbe ricevere lo stesso trattamento subito da Woody Allen.» (da RivistaStudio.com)

TRE. I fiori del male di Baudelaire; Lolita di Vladimir Nabokov; Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel García Márquez; Il risveglio di Kate Chopin; Madame Bovary di Gustave Flaubert; Arancia meccanica di Anthony Burgess; Ragazze di campagna di Edna O’Brien; Maurice di E. M. Forster; Anna Karenina di Lev Tolstoj; Via col vento di Margaret Mitchell; Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams;  Fanny Hill. Memorie di una donna di piacere di John Cleland; Ulisse di James Joyce; Tropico del Cancro di Henry Miller; La prova del miele di Salwa al Neimi; L’amante di Lady Chatterley di D. H. Lawrence…

Si potrebbe continuare a lungo, con l’elenco dei libri – anzi, dei tanti capolavori – che abbiamo rischiato di non conoscere a causa dei loro contenuti giudicati negativamente dalla censura. Ma ne vale la pena, di continuare la lista? Come detto sopra, è la solita orribile farsa, e vederla capitare tante volte non la rende meno ridicola, sciocca e malevola. Cantava De André:

Si sa che la gente dà buoni consigli
Sentendosi come Gesù nel tempio
Si sa che la gente dà buoni consigli
Se non può più dare cattivo esempio

QUATTRO. Meglio quindi lasciare la parola a Philip Roth stesso:

«Non si scrive narrativa per affermare principî e credenze che chiunque sembra condividere, né per rassicurarci sulla giustezza dei nostri sentimenti. Il mondo della finzione ci libera dalle gabbie in cui la società rinchiude i sentimenti; una delle facoltà dell’arte è permettere tanto alla scrittore quanto al lettore di reagire all’esperienza in modi non sempre contemplabili nella quotidianità; o, se pure contemplabili, non sempre possibili, o gestibili, o legali, o consigliabili, o anche solo utili alla sopravvivenza. Possiamo anche non sapere di avere uno spettro di sentimenti e di reazioni così ampio, finché non vi entriamo in contatto grazie all’operato della narrativa.

Il che non significa che il lettore o lo scrittore non esercitino alcun giudizio sull’agire umano. Anzi, giudichiamo a un diverso livello dell’essere, perché non solo possiamo giovarci del contributo di nuovi sentimenti, ma non siamo condizionati dalla necessità di agire in base a quello che è stato il nostro giudizio. Cessando per un po’ di essere cittadini integerrimi, precipitiamo in un altro stato di coscienza. E questa espansione della coscienza morale, questa esplorazione della fantasia morale, è preziosa sia per l’individuo sia per la società. […]

Io leggo narrativa per liberarmi della mia prospettiva angusta e terribilmente noiosa  sulla vita, e per lasciarmi tentare dall’identificarmi con un punto di vista narrativo a tutto tondo che non è il mio. E scrivo per lo stesso motivo. […]

E in quegli anni beati prima che conquistassi la mia indipendenza, ero quasi del tutto ignaro della legge del 26 (anche nota come TFCN: teoria della frequenza delle conseguenze nascoste), il cui postulato è il seguente: il numero minimo di ripercussioni, non solo di qualunque cosa uno fa o dice, ma anche di qualunque cosa che uno non fa o non dice, è ventisei; queste ventisei ripercussioni si verificano in aggiunta a quelle che uno aveva previsto, qualunque esse siano; queste ripercussioni sono sempre diametralmente opposte alle ripercussioni che uno si augurava di produrre. A ventitré anni, appena congedato dall’esercito, non sapevo nulla di tutto ciò.» (Philp Roth – da Perché scrivere? – Einaudi, 2018)

Un evidente errore di gioventù.

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