UNO) «… magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ci che non ha parola, l’uccello che so posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica… Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose?»
Così termina l’ultima delle Lezioni americane – Sei proposte per il possimo millennio (Mondadori, 1993) di Italo Calvino. Durante l’estate del 1985, egli lavorò a un ciclo di sei conferenze (Six Memos for the Next Millenium) che avrebbe dovuto tenere all’Università di Hatvard (“Norton Lectures”) nell’anno accademico 1985-86. Al momento di partire per gli Stati Uniti ne aveva scritte cinque. La sesta l’avrebbe scritta ad Harvard. Ma non partì mai: colto da malore il 6 settembre, morì per emorragia cerebrale nella notte fra il 18 e il 19.Il titolo di questa sua ultima lezione è Molteplicità.
Calvino vi scrive che «Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento.» E più oltre aggiunge: «L’eccessiva ambizione dei propositi può essere rimproverabile in molti campi d’attività, non in letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione. Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo.»
DUE) «È sempre, solo, una questione di paura ». Questa frase, tratta da un’intervista di Daniel Pennac, costituiva per me il suo biglietto da visita. (…) Ci siamo conosciuti così, nel segno di una comune sensibilità per la scrittura come anticorpo della paura, la paura di non controllare le risposte, di non tenere il passo al perenne interrogatorio della società là fuori. La paura di sentirci bambini circondati da adulti sferzanti, risolti, collaudati e insindacabili. Più ci penso e più credo che risieda in questo nostro comune tratto il bisogno di un confronto come quello che segue, tutto incentrato sulla vocazione salvifica dei libri.
Daniel Pennac: «… non credo esista un tempo più complesso di un altro: nessuna epoca è semplice per chi la vive, per la fondamentale ragione che esistere significa iniziare fin dall’inizio l’esperienza della complessità, sia individualmente che come gruppo, famiglia o collettività.
Stefano Massini: Quindi la confusione per te è una condizione cronica dell’essere umano.
Daniel Pennac: Credo che la domanda dei nostri lettori sia l’espressione di una loro profonda preoccupazione, ontologica, prospettica, che ha a che fare con ben altro: la ricerca di una definizione rassicurante del reale. Il punto, però, è: che cos’è davvero la realtà? Tu te lo sei mai chiesto, Stefano?
Stefano Massini: Azzarderei che la realtà è un compromesso, molto illusorio (poco reale, paradossalmente) fra quello che noi sentiamo e quello che ci accade intorno. Il fatto è che noi non conosciamo mai la verità, ma solo la nostra percezione. E soprattutto in fasi storiche di spiccato individualismo, è davvero difficile riconoscere la tirannia del punto di vista: ci piace convincerci di avere una finestra oggettiva sulle cose. Ma tutto è un punto di vista, tutto è filtrato dal nostro io. Noi non leggiamo la realtà, bensì sempre «la realtà per noi, con noi, e dentro noi». (…)
Daniel Pennac: …non c’è dubbio che da sempre la letteratura ci insegna su noi stessi e ci mette in guardia contro noi stessi, individualmente e collettivamente. A noi ascoltarla o meno. Che lo facciamo o no, la cultura ci garantisce l’esistenza di uno sguardo lucido. A chi vuole, i libri danno una chance di alzarsi sopra il gran bordello delle cose e tentare una lettura di ciò che altrimenti sarebbe illeggibile. (da Chi legge non ha paura, di Stefano Massini in Robinson, 3 agosto 2019)
TRE) «L’analisi formata da un vero intellettuale esclude che si possano definire innocenti tutti coloro che stanno da una parte e malvagi gli altri. quando si parla di cultura, lo stesso concetto di “parte” è molto problematico poiché nella maggior parte dei casi una cultura non è un pacchetto a tenuta stagna; una civiltà non è mai del tutto omogenea, interamente buona o cattiva. Ma se lo sguardo dell’intellettuale è rivolto a chi detiene i cordoni della borsa, egli non pensa più in quanto tale, bensì da seguace o accolito. Il retropensiero lo guiderà sempre a compiacere, a non dispiacere. (…)
…il vero intellettuale è essenzialmente laico. sebbene molti vogliano far credere che le loro rappresentazioni riguardino cose più elevate o i valori supremi, la moralità coincide con l’azione in questo mondo terreno: qui essa ha luogo, qui sono gli interessi da sostenere, qui egli deve orientarsi secondo un’etica coerente e universalista, qui deve scegliere tra potere e giustizia, qui l’azione svela quali siano le scelte e le priorità di ciascuno. In definitiva, gli dèi che sempre falliscono pretendono dall’intellettuale una sorta di certezza assoluta, una visione della realtà totalizzante, senza strappi, che riconosce soltanto seguaci o nemici.
Ciò che mi sembra più interessante è come mantenere la mente aperta al dubbio, a un’ironia vigile, scettica (meglio se rivolta anche a noi stessi). (…) Il compito più arduo, per un intellettuale, è di rappresentare attraverso il lavoro e l’azione le idee che professa, senza cedere alla tentazione di acquisire il peso, ma anche la rigidità di un’istituzione; senza trasformarsi in un automa, che agisce su comando di un sistema o di un metodo, quale che sia. Chiunque abbia conosciuto la felicità di riuscirci e anche di riuscire a mantenersi vigile e padrone di sé, sa quanto rara sia una simile consonanza. Vi è un’unica via per conquistarla: ricordarsi sempre che l’intellettuale ha la facoltà di scegliere se rappresentare attivamente la verità al meglio dei propri talenti, oppure lasciarsi passivamente guidare da un padrone o un’autorità. Per l’intellettuale laico questi dèi sempre falliscono,» (Edward W. Said: Dire la verità. Gli intellettuali e il potere. Feltrinelli, 1995)
QUATTRO) «Il 28 gennaio 1919, cent’anni fa, Max Weber pronunciò a Monaco una conferenza che costituisce uno dei più alti documenti del pensiero moderno. Intitolata Politica come professione — ma il termine tedesco Beruf significa anche “vocazione” — essa seguì di circa un anno un’altra conferenza su La scienza come professione.
Benché situato in un periodo storico determinato — la fine della prima guerra mondiale — Weber si rivolge agli studenti tedeschi, ma anche all’Europa e all’intero Occidente. È perciò che quel discorso non ha perso nulla della sua bruciante attualità. E anzi sembra parlare a noi. Di noi. Mai come oggi, quando la professione della politica tocca il punto più basso, la conferenza di Weber pone la civiltà europea di fronte alle proprie responsabilità. (…)
…Weber parla della professione politica. Essa nasce dalla moderna divisione del lavoro, che assegna anche al politico un ruolo specifico. In una società sempre più burocratizzata, si richiede un corpo di funzionari dotati, oltre che del senso dell’onore, di competenze di tipo amministrativo. In uno scenario popolato da notabili e imprenditori spregiudicati del potere, la professione politica inizia ad attirarsi un discredito arrivato al suo culmine solo oggi.
Ben consapevole di questo processo, lo sguardo di Weber è però rivolto alle differenze. Non è la stessa cosa vivere “di” politica o “per” la politica. Solo in questo secondo caso il Beruf esprime il suo più alto significato, la professione diventa vocazione. È questa condizione che caratterizza il capo politico, distinguendolo dall’imprenditore e anche dal funzionario amministrativo: egli agisce per una causa, decide in base a essa.
Certo, lontano da ogni romanticismo e moralismo, Weber sa bene che la decisione politica non nasce da un’esigenza etica incondizionata. Essa si situa all’interno di circostanze che richiedono competenze specialistiche e conoscenza dei processi storici. Ha parole di disprezzo per coloro che lo negano, proclamando di agire in nome del popolo. Il politico che pretende di agire senza un sapere adeguato, non farà altro che produrre demagogia a basso prezzo, i cui costi gravano sull’intera società. Ma la preparazione tecnica, come anche la fedeltà al proprio impegno, ancora non bastano. Chi sceglie di vivere per la politica, deve fare un passo in più: conoscere fino in fondo le conseguenze delle proprie scelte, i contrasti etici cui la propria azione lo espone. Per poterlo affrontare, deve essere consapevole che il male esiste. E che dunque, nelle sue scelte, dovrà venire a compromesso con le potenze diaboliche che abitano il mondo. Ma senza mai sottomettersi a esse. Che c’è un limite davanti al quale non è possibile arretrare e bisogna dire: accada quel che accada, da qui non mi muovo.
Ricostruite le trasformazioni politiche del tempo, il complesso rapporto tra tecnica e democrazia, parlamento e governo, ufficio e carisma, nelle pagine finali Weber penetra in quell’inestricabile groviglio di contraddizioni che conferiscono al Beruf politico la sua drammatica tensione. Nulla è più lontano da lui della condotta di politici che operano in base alla pura ricerca del consenso, senza «alcun rapporto con la coscienza del tragico a cui è intrecciato in verità ogni agire, e in particolare l’agire politico». Tragica è la connessione necessaria tra gli elementi, apparentemente opposti, della passione e della razionalità: «Come si possono far convivere in una stessa anima un’ardente passione e una fredda lungimiranza»? Ma ancora più tragica è l’esigenza di comporre le due etiche, apparentemente inconciliabili, dalla cui relazione l’agire politico è costituito. La prima è l’etica della convinzione, secondo la quale si agisce in base ai puri principî, senza preoccuparsi, o attribuendo ad altri, gli effetti che ne deriveranno. La seconda è l’etica delle responsabilità, in cui si agisce anche in ragione delle conseguenze delle proprie azioni.
Mai come in questo caso le parole di Weber risuonano nelle nostre orecchie. Come deve comportarsi il politico che sa che la difesa incondizionata di una giusta causa porterà a una sicura sconfitta della propria parte e dunque a un peggioramento della condizione di coloro che difende? Eppure è sulla linea di fuoco di questa tensione che il vero politico si muove, senza abbandonare nessuna delle due etiche, provando strenuamente a rispondere a entrambe. Questa è precisamente la responsabilità del politico. Ma cosa sanno, di tutto ciò, i politici che oggi ci governano?» (Roberto Esposito – la Repubblica 23 gennaio 2019).
CONCLUDENDO) Già, che ne sanno? La maggior parte di loro di grovigli e garbugli non vuol nemmeno sentir parlare. Ne hanno paura, li temono, preferiscono di gran lunga la banalità e la semplificazione. Questo si chiama populismo. Ma attenzione, il problema non riguarda solo una degradata “classe dirigente”. Chi sono i populisti? «Credi che siano gli altri e un bel giorno ti accorgi che siamo noi» (Ennio Flaiano).
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