Gruppi di famiglia dall’interno

UNO. Il 19 luglio del 1937 si inaugurò a Monaco di Baviera, nell’Istituto di Archeologia dell’Hoftgarten e a cura di Adolf Ziegler, una mostra fortemente voluta da Adolf Hitler sull’arte degenerata. Esposizione che metteva al bando l’arte moderna e d’avanguardia considerata come degenerata (Entartete Kunst). Un’arte che a suo parere andava contro lo spirito del bello e della classicità greca considerata consona alla nazione tedesca. La mostra era stata preceduta da un imponente piano di confisca predatoria di opere di artisti come Boccioni, Nolde, Picasso, Kirchner, Grosz, Van Gogh, Munch, Gauguin, Dix, Modigliani, Kollowitz; i loro lavori vennero messi all’indice.  Autori protagonisti di movimenti di avanguardia quali l’espressionismo, l’astrattismo, il costruttivismo, il dadaismo, la nuova oggettività – ritenuti oggi pagine fondamentali della storia dell’arte del XIX e XX secolo vennero quindi banditi.

Entartete Kunst, pur non avendo direttamente a che fare con la Shoa, ne ha preparato il terreno contribuendo a diffonderne i presupposti. Nell’estate del 1937 si allestirono poi due mostre contemporaneamente. Il 18 luglio fu inaugurata sempre a Monaco e alla presenza di Hitler, una grande mostra dell’arte tedesca, «dove si presentavano opere che rimandavano a un’idea di arte eterna, astorica, espressione sia dell’intima essenza di un popolo, sia della “dignità ariana”. Ultranazionalista nei contenuti e nella forma, la nuova arte tedesca doveva rigettare l’arte dei primitivi, dei bambini, dei folli, dei bolscevichi, degli ebrei a cui la cultura moderna e d’avanguardia erano associate. […] Entartete Kunst fu un successo di pubblico. In quattro anni, in un tour che coinvolse diverse città, fu visitata da circa tre milioni di spettatori di cui, si stima, due milioni nella sola Monaco, attraendone cinque volte di più della mostra gemella sull’arte tedesca e annoverandosi, così, tra le esposizioni più viste nel mondo.» (Gabriella De Marco) Ovviamente anche alcune forme musicali (come ad esempio il jazz) subirono la stessa sorte.

DUE. Festen – Festa in famiglia (Festen) è un film del 1998 scritto e diretto da Thomas Vinterberg. È un film molto bello e tagliente, che non concede spazio alla retorica né a sentimentalismi o ridondanze affettive ma mira a un bersaglio preciso. Vederlo mette però decisamente a disagio, soprattutto a causa di una – diciamo così – diffusa “prevenzione istituzionale” della nostra società. È quindi facile capire le cause di questo imbarazzo.

Un accenno sulla trama: « La famiglia Klingenfeldt, magnati dell’acciaio, si riunisce al completo in una villa lussuosa per festeggiare il sessantesimo compleanno del capostipite, Helge. È presente anche Michael, il figlio minore, collerico e incline all’alcool, che non era stato invitato, insieme alla moglie e i figli. L’atmosfera è subito molto tesa, nonostante gli sforzi collettivi di mostrare familiarità e calore. Durante la cena Christian, il primogenito, viene invitato a proporre un brindisi; si alza e ringrazia, propone di brindare al padre, e invece del discorso d’elogio che tutti s’aspettavano, dichiara che, quando erano bambini, per anni il padre ha abusato di lui e della sorella Linda, morta suicida l’anno prima.

I presenti gelano, ma solo per pochi secondi: presto uno dopo l’altro si sforzano di far finta di niente e di prendere le parole di Christian come uno scherzo di cattivo gusto; la cena prosegue tra sorrisi un po’ tirati, barzellette surreali e brindisi sollecitati in continuazione dal maestro di cerimonie. Poco dopo, Christian si alza nuovamente, prende la parola per scusarsi, ma invece di scusarsi accusa il padre di essere la causa del suicidio di Linda. Poi accusa la madre di aver visto il padre abusare di lui e della sorella, ma di aver fatto finta di niente…» (da Wikipedia)

TRE. Appare quindi con tutta evidenza come  il primo “comandamento” – tra i dieci che secondo la Bibbia furono consegnati da Dio a Mosè sul monte Sinai – clamorosamente violato dal primogenito Christian sia il quarto: “Onora tuo padre e tua madre”. Il secondo sacro precetto violato non ha invece origine biblica quanto sociologica, quello cioè che recita: “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Il terzo è poi logica conseguenza del secondo: l’immagine di rispettabilità e perbenismo familiare va difeso ad ogni costo da parte dei membri del gruppo (infatti la madre “non si è mai accorta di niente…”). Naturalmente, chi non vi si attiene è un traditore.

Come sempre succede, le cause dell’imbarazzo che ci assale quando casualmente veniamo messi di fronte a certe “sfortunate” evidenze, vengono da molto lontano. Per fare un esempio,  Virginia Woolf, nel suo Una stanza tutta per sé, fa riferimento ad una Storia d’Inghilterra redatta da un certo professor G.M. Trevelyan (storico e accademico di Cambridge, 1876-1962) nel quale vengono riportate le comuni usanze dell’epoca di Elisabetta: «Picchiare la moglie – lessi – era un diritto riconosciuto dell’uomo e veniva praticato senza vergogna nelle classi sociali alte come in quelle basse… Allo stesso modo, – continua lo storico – la figlia che rifiutava di sposare l’uomo che i genitori avevano scelto per lei, poteva venire chiusa a chiave, picchiata e malmenata, senza che l’opinione pubblica subisse il benché minimo turbamento. Il matrimonio non era questione di affetti personali, ma di avarizia familiare, in particolare tra le “cavalleresche” classi superiori.»

Alla luce di certi parametri tuttora ricorrenti, l’arte di Virginia Woolf potrebbe essere comodamente giudicata come arte degenerata ancora oggi.

QUATTRO.  Ma allora anche l’arte di Henrik Ibsen può essere messa all’indice: ad esempio per drammi come Casa di bambola (1879), che suscitò al tempo scandalo e polemiche; oppure L’anitra selvatica (1884); opere queste in cui si denuncia lo sterile egoismo celato dietro a certo perbenismo familiare, che rompevano radicalmente i modelli del teatro borghese mediante una critica corrosiva dell’ipocrisia, della menzogna, dei pregiudizi su cui si regge l’edificio della famiglia e della società borghese. Perfino lo stesso Friedrich Nietzsche, che pur appartenendo più propriamente all’ambito del pensiero filosofico, ha comunque influito molto sulle forme letterarie e artistiche. Se da un lato è infatti indubitabile che il termine Übermensch (tradotto in italiano Superuomo) da lui utilizzato a partire da Così parlò Zarathustra (1883-85) è stato strumentalizzato e deformato politicamente in chiave antidemocratica (nazionalistica e razzistica, fino al nazismo), è ancor più vero che esso agiva nella sua filosofia soprattutto come negazione delle forme della vita borghese, come ricerca di emancipazione da ogni schiavitù ideologica e da valori considerati falsi e repressivi.

EPILOGO. C’è allora un cortocircuito, ancora qui e adesso, nella nostra società (quella reale, al netto degli ipocriti “storytelling” di comodo) che ci lascia al buio. Un equivoco di comodo che ama rinchiudersi nel mito fasullo del popolo virtuoso, di quella società civile contrapposta a una casta politica di profittatori. Un mito autoassolutorio che ha impresso nell’immaginario di tanti di noi la falsa e rassicurante immagine di un popolo incorrotto; contro l’evidenza, invece, di una cittadinanza afflitta dagli stessi mali dei suoi governanti, di una casta sempre accusata di trasformare la rilevanza pubblica in benefici privati, ma con la quale poi spesso si stringono taciti patti per garantirsi diritti inconfessabili: assunzioni e promozioni nel pubblico impiego svincolate da meriti e da esigenze di servizio, nonché il posto a vita, l’assenteismo, l’inefficienza, il passaggio ereditario del ruolo tra i membri delle famiglie, ecc.

Quindi la famiglia, (comunque la si intenda), o il clan, ancora una volta: la cosiddetta cellula vitale, base della società, ma anche la foglia di fico con la quale – assieme a rispettabilità e perbenismo di facciata – ci guadagniamo, ignavi e sornioni, la classe dirigente degenerata che ci meritiamo. Né di più, né di meno.

Il brano Sornione (qui in una versione dal vivo) di Daniele Silvestri è contenuto nell’album S.C.O.T.C.H (2011) – Nel dipinto sopra: The Rainbow Portrait Of Queen Elizabeth I, (1600-1602) di Isaac Oliver.

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