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3 Dicembre 2020

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Jim Marshall

New York, 2010. Solo, in una camera d’albergo, moriva James “Jim” Joseph Marshall. Fotogiornalista indipendente e irrequieto, classe 1936, dal carattere e dalla fisicità alla John Belushi, come lui figlio di immigrati e nato a Chicago. Un accreditato insider, per circa mezzo secolo, dell’ambiente musicale, tra tour e concerti epici, una strenua dipendenza dalle droghe e un momento di inattività per possesso e uso di coltelli e pistole e una pena scontata in carcere (“the lost years”, gli anni perduti, si legge sul suo sito ufficiale). Nel ’98 aveva incontrato e nominato sua assistente Amelia Davis, che in mancanza di eredi, dopo la sua morte ne gestirà e deterrà l’ingente collezione di stampe e negativi.

Un patrimonio iconografico impressionante di artisti e momenti cruciali prima del jazz e poi del rock, cioè la ricchezza e il cuore del film: Miles Davis che si allena alle corde, Bob Dylan che passeggia con gli amici, Hendrix che dà fuoco alla sua Stratocaster a Monterey Pop o che riprende Janis Joplin con una Super8 in un camerino, o ancora la Joplin in compagnia di una bottiglia di Southern Comfort, seduta sulla sua Porsche psichedelica o che finge di strangolare Grace Slick dei Jefferson Airplane. L’ultimo live dei Beatles a Candlestick Park, San Francisco, 1966. Johnny Cash (e la moglie June Carter) che saluta col dito medio le guardie, i leggendari concerti di Folsom Prison e a quello di San Quentin. Il tour americano degli Stones nel ’72 seguito per “Life” (da Marshall definito “pharmaceutical”), i Grateful Dead a Woodstock, l’amico Duane Allman e molti altri protagonisti della controcultura rock statunitense. Una scorribanda armata e ad alta tensione tra giganti, iniziata per caso con John Coltrane (che gli chiese indicazioni stradali per Berkeley sulla strada verso un’intervista, nel 1960, cortesia fatta in cambio della possibilità di fargli qualche foto). Proseguita con circa cinquecento crediti per altrettante cover e scatti a contratto negli studi di Atlantic e Columbia, culminata nell’era del classic rock, tra ’60 e ’70, e tramontata a contatto con gruppi molto meno eclatanti, proprio mentre Marshall iniziava a presentare i suoi libri fotografici nelle gallerie e la sua capacità di aver colto con passione lo spirito del tempo e la verità degli artisti veniva legittimamente riconosciuto.

Show Me the Picture è  il titolo del volume fotografico uscito nel 2018 per Chronicle Books, e dell’omonimo film del 2019 (Regia di Alfred George Bailey) curati da Davis, anche coproduttrice e intervistata nel film.

Agli antipodi dell’estetica di Annie Leibovitz – che lo ha definito “il fotografo del rock ‘n’ roll” – nelle immagini di Marshall i soggetti non sembrano mai in posa e il quadro non è frutto di una costruzione meticolosa ma della fiducia che riusciva a conquistarsi dai suoi soggetti e del suo timing, l’istinto del fermare il tempo nel momento esatto. Ciò s’intende anche per la produzione extra musicale, quando documentò le marce contro la segregazione, il nucleare, la guerra in Vietnam, o le reazioni alla morte di JFK. (da MYmovies.it)

Nell’immagine: Jimi Hendrix al Monterey Pop Festival, 1967 © Jim Marshall Photography LLC.

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