UNO. «Non mi piacciono i palloncini perché esplodono rumorosamente. Ricordo un terribile ululato di sirene e la gente che cominciava a correre. Non sapevo cosa stesse succedendo, ero solo spaventata. Scrivo poesie, una delle quali riguarda la patria, se me lo permette, la leggerò:
“Sono nata in una terra dove il sole sorge / dove i giunchi della steppa tessono tappeti / Sono figlia del Donbass, / figlia della terra di Luhansk / Terra sacra ed eroica / sono russa e sono orgogliosa della Russia / E qui c’è la mia casa e la mia famiglia / sacro Savatopol è la mia forza / anche qui c’è la mia amata patria.” Grazie.»
La ragazza si chiama Diana e ha dodici anni. Durante l’incontro la giovane ha raccontato a Putin di essersi trasferita otto anni fa da Lugansk nel Donbass a Sebastopoli in Crimea, poi ha letto la sua poesia.
«Prima di tutto, grazie ancora per la poesia, versi meravigliosi.» Il Presidente russo, dopo averla ringraziata, le ha spiegato le ragioni della guerra in Ucraina, che lui chiama “operazione militare speciale”. Lo fa durante una riunione del consiglio di sorveglianza della piattaforma “Russia – un paese di opportunità” il 20 aprile scorso: «La tragedia avvenuta nel Donbass – afferma Putin – ha costretto la Russia a lanciare questa operazione militare”. “Sfortunatamente – ha aggiunto – a Lugansk e nella Repubblica popolare di Lugansk, molto è cambiato anche nel corso degli anni. Ma in peggio, perché per tutti questi otto anni sono continuati bombardamenti, attacchi di artiglieria e ostilità. Naturalmente, è stato molto, molto difficile per le persone”.»
Pochi giorni dopo, il 24 aprile: una candela rossa in mano, poi il segno della croce. Mentre in Ucraina prosegue la guerra, Vladimir Putin partecipa alla messa di mezzanotte in occasione della Pasqua ortodossa nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Al fianco del presidente russo il sindaco di Mosca, Sergey Sobyanin, mentre la funzione è celebrata dal patriarca di Mosca, Kirill.
DUE. Nell’immagine in testata è riprodotta l’opera del fotografo bielorusso Pavlo Krychko, che ha creato un ritratto del presidente russo da 1.500 screenshot e fotografie scattate durante i 60 giorni di guerra contro l’Ucraina: scene di distruzione, bombardamenti, profughi e vittime del conflitto determinate dallo stesso individuo che ama farci sapere come egli apprezzi la poesia e partecipi devotamente alla messa pasquale.
Nel libro di Wim Wenders L’atto di vedere (Meltemi, 2022), sono raccolti interventi, relazioni, soprattutto interviste risalenti al periodo 1982-1992 in cui il regista si concentra sul senso della visione, del filmare, e quindi del proporre la propria visione (e interpretazione) della realtà. Il testo è stato pubblicato nel 1992; trent’anni dopo, in occasione della nuova edizione del libro, Wenders è stato intervistato da Alberto Anile, che gli chiede:
Ma l’immagine è diventata più vera o più falsa [oggi, rispetto al 1991, N.d.R.]? Come dice nel libro, «l’alta definizione non verrà in fondo giudicata per i suoi miglioramenti d’ordine tecnologico — la tecnologia si evolve continuamente — ma per un progresso valutabile in termini morali».
«In termini morali credo che non stiamo andando avanti, al contrario. Il declino del concetto di verità, per esempio, è il risultato dei social media, delle fake news e della manipolabilità complessiva dell’informazione digitale. E questo per i nostri standard morali è un colpo culturale enorme». (la Repubblica, 22 aprile 2022).
TRE. Sul concetto di verità, sulle fake news – ma più in generale sul concetto di Storia e verità, sul relativo groviglio di questioni: legalità e giustizia, comunità umane e relazioni di potere in tutte le loro sfaccettature – non ha mai smesso di arrovellarsi Leonardo Sciascia. Per esempio in un testo del 1963, che si basa su fatti reali e fu pubblicato in origine da Einaudi: Il Consiglio d’Egitto (ora in edizione Adelphi, 2009):
«Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782, per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell’abate Vella, incaricato di mostrare all’ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: spacciare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell’isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d’Egitto, che permetterebbe l’abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Apparso nel 1963, Il Consiglio d’Egitto è in certo modo l’archetipo, e il più celebrato, fra i romanzi-apologhi di Sciascia, dove lo sfondo storico della vicenda si anima fino a diventare una scena allegorica, che in questo caso accenna alla storia tutta della Sicilia.» (dal risvolto di copertina)
«La narrazione segue minuziosamente la laboriosa falsificazione dell’abate fino a quando, spinto dalle riforme del catasto che avrebbero fatto aumentare le tasse per la nobiltà palermitana, pensa di scrivere un intero codice dal nulla, che chiamerà “Consiglio d’Egitto”: lì, l’intera storia delle proprietà terriere di Sicilia viene reinventata, a uso e consumo del Viceré e delle sue riforme. Vella ci viene raccontato letteralmente eccitato: più lavora, traduce, scrive, inventa più cresce la sua smania: che è smania creatrice ma, anche, smania di potere, un potere che risiede nella lingua e nella creazione di storie, nella possibilità di affondare letteralmente le mani nelle relazioni di potere interne alle classi dirigenti le quali adesso cercano, adulano l’abate, provando a ingraziarsi le sue simpatie.» (Roberto Derobertis, da Pulplibri.it)
QUATTRO. Ha scritto Primo Levi: «I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi, sono più pericolosi gli uomini comuni». A proposito di Hitler, invece, Elie Wiesel ha affermato: «Il problema non è che è un demone, ma che è un uomo». Denunciandone la “banalità“, Hanna Arendt si interrogava sulla genesi del male, più che della sua manifestazione. Questo comporta il porsi implicitamente domande molto serie sulla reale natura dell’uomo. Naturalmente, le opinioni in proposito sono le più diverse. Tuttavia, schematizzando e semplificando un po’, le posizioni dei grandi pensatori possono essere suddivise in tre categorie:
1) Jean-Jaques Rousseau e altri illuministi avevano il mito del bon sauvage (buon selvaggio): secondo loro l’uomo è buono per natura, ma la società lo corrompe e porta ad essere cattivo coi suoi simili;
2) Voltaire – tanto per citare un altro intellettuale illuminista – sosteneva invece che l’uomo di per sé è una bestia istintiva, ma la società cerca di costringerlo a reprimere i suoi impulsi per il bene della comunità. Anche filosofi dell’Ottocento e Novecento come Nietzsche e Freud erano di questa opinione;
3) ultimo ma non ultimo Blaise Pascal, secondo il quale «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia.» (Pensieri, 358) Per poi precisare: «È pericoloso mostrar troppo all’uomo quanto è simile alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è ancora pericoloso mostrargli troppo la sua grandezza senza la sua bassezza. È ancora più pericoloso lasciargli ignorare l’una e l’altra. Non bisogna far credere all’uomo di essere uguale alle bestie o agli angeli, né bisogna fargli ignorare l’una e l’altra cosa, ma è necessario che conosca l’una e l’altra cosa.» (Pensieri, 418)
Gira che ti rigira, siamo sempre all’«ottimismo della volontà e pessimismo della ragione» di gramsciana memoria?
EPILOGO. Slavoj Žižek afferma che «Il pessimismo è il modo migliore per mantenere un pizzico di ottimismo. Se sei ottimista e le cose vanno male, perdi ogni fiducia nel futuro. Se sei pessimista e qualcosa va bene, ti resta un barlume di speranza». Secondo Oscar Wilde invece «Il pessimista non è nient’altro che un ottimista bene informato.»
Il problema è che, tra le poche certezze che ci appartengono, c’è quella di essere capitati a vivere nella prima epoca della Storia caratterizzata dal cosiddetto sovraccarico cognitivo, meglio conosciuto come Information overload(ing). Sarebbe davvero saggio trarne almeno le più modeste e doverose riflessioni.