Nel 1928 Virginia Woolf tenne due conferenze a Newnham e Girton, college femminili dell’Università di Cambridge. L’anno dopo, e precisamente il 24 ottobre 1929, venne pubblicato per la prima volta Una stanza tutta per sé (A Room of One’s Own), il saggio che si basa su quelle due conferenze. Il saggio inizia così: «Ma insomma, potreste dire, ti avevamo chiesto di parlarci delle donne e il romanzo – cosa ha a che fare, questo, con una stanza tutta per sé? Tenterò di spiegarmi…» (…) «La sola cosa che potevo fare era offrirvi un punto di vista: se vuole scrivere romanzi, la donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé».
L’obiettivo di Virginia Woolf è denunciare la condizione di inferiorità – diciamo “logistica” – riservata alle donne nella storia di tutte le società. Infatti continua: «Per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere la figura dell’uomo ingrandita fino a due volte le sue dimensioni normali. (…) Quale che sia l’uso che se ne fa nelle società civili, gli specchi sono indispensabili a ogni azione violenta ed eroica. È questa la ragione per la quale sia Napoleone che Mussolini insistono con tanta enfasi sulla inferiorità delle donne, perché se queste non fossero inferiori, verrebbe meno la loro capacità di ingrandire. Ciò serve a spiegare in parte la necessità che tanto spesso gli uomini hanno delle donne. E serve anche a spiegare perché gli uomini diventano così inquieti quando vengono criticati da una donna; (…) Perché se lei comincia a dire la verità, la figura nello specchio si rimpicciolisce; la capacità maschile di adattarsi alla vita viene sminuita.»
Il percorso storico denunciato da Virginia Woolf è quindi più o meno conseguenza del ragionamento ad esso sotteso: “Per essere rassicurato sul fatto che io, uomo e singolo individuo, sono superiore agli altri uomini, ho bisogno di qualcuno (inferiore a me e a me soggetto) che mi rassicuri in proposito. Questo qualcuno è la donna; è quindi necessario garantire nel tempo che il suo ruolo rimanga subalterno. «Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si è cenato bene» scrive la Woolf. E poiché «Il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo quando non viene pagato», alla donna non concedo denaro né «stanze tutte per sé». Eccetto quando decido io.”
Ne sa qualcosa anche l’Anna Karenina di Lev Tolstoj, la quale a un certo punto (cap. XVI, parte terza) ragiona sul proprio “rispettabile” marito: «Ha ragione! Ha ragione” – ella proferì – S’intende, lui ha sempre ragione, è cristiano, è magnanimo! Sì, un uomo basso, disgustoso! E questo non lo capisce e non lo capirà nessuno, oltre a me, e io non posso spiegarlo. Loro dicono: un uomo religioso, morale, onesto, intelligente: ma non vedono quello che ho visto io. Non sanno com’egli ha soffocata la mia vita per otto anni, ha soffocato tutto ciò che c’era di vivo in me, che non ha pensato neppure una volta che io sono una donna viva che ha bisogno d’amore. Non sanno come a ogni passo mi offendeva e rimaneva contento si sé. (…) Come non ho indovinato quel ch’egli avrebbe fatto? Egli avrebbe fatto quello ch’è proprio del suo carattere basso. Lui rimarrà con la ragione, e me, rovinata, mi farà rovinare ancor peggio, ancora più in basso…»
Ogni sistema autoritario persegue la stessa strategia: mantenere in situazione di debolezza le persone deboli e svantaggiate. Lo scopo – per quanto banale e scontato sia ripeterlo qui – è sempre lo stesso: agevolare la propria posizione di potere e privilegio. Il controllo della parola – quindi della cultura – è il principale mezzo di propaganda dell’autorità costituita nel disinteresse generale. Controllare l’accesso a “una stanza tutta per sé” e al denaro è quindi il mezzo più efficace e utilizzato per il controllo dei sottoposti e degli svantaggiati. Perché in mancanza di spazi (per la solitudine) e di denaro, nessun “muro della parola” potrà mai essere abbattuto.
Per riuscire ad abbattere questo muro sono infatti necessarie determinate, molto precise condizioni. Lo spiega molto bene Murakami Haruki nella sua introduzione al libro intervista al Maetro Ozawa (I miei pomerigggi con Ozawa SeiJi):
«È vero, il Maestro parla il suo gergo ozawano, non facile da rendere in una lingua standard. Accompagna le parole con grandi gesti e molte delle sue idee prendono la forma di una canzone. Eppure, attraverso quel suo linguaggio un po’ ruvido, il suo sentire più profondo ci arriva con un’immediatezza straordinaria, capace di abbattere il «muro della parola».
Le persone creative non possono fare a meno di essere egoiste. Quest’affermazione sembrerà arrogante, ma è incontestabilmente vera. Il lavoro creativo non è possibile per chi, qualunque sia il suo campo d’attività, vuole mantenere il controllo su tutto, cerca di non causare problemi e sceglie sempre la via più facile. Creare dal nulla esige uno stato di concentrazione raggiungibile quasi solamente nell’assenza di contatto con gli altri, attraverso quella dimensione che si potrebbe definire dämonisch, il demonico.
Tuttavia, usare il pretesto di essere un artista per permettere al proprio ego di prendere il sopravvento è un ostacolo alla vita sociale e allo «stato di concentrazione» indispensabile alla creatività. Mettere a nudo il proprio ego alla fine del diciannovesimo era una cosa, in questo secolo un’altra, ed è molto più difficile. Le persone che fanno un mestiere creativo devono costantemente trovare il giuso equilibrio tra individualità e mondo circostante.
Nel corso dei nostri incontri ho capito di voler rendere conto di una risonanza naturale del cuore. La risonanza del cuore di Ozawa, ovviamente, che ho ascoltato con la massima attenzione. Dopotutto, io facevo domande e lui rispondeva. Ma spesso nelle sue parole sentivo l’eco del mio cuore. E spesso l’eco faceva risuonare ciò che sapevo sonnecchiare in me da molto tempo. Altre volte, invece, mi ha sorpreso. La vibrazione simpatetica che si produceva durante le nostre conversazioni non solo mi ha fatto conoscere Ozawa SeiJi, ma, a poco a poco, mi ha anche rivelato Murakami Haruki. Inutile specificare che è stato un un processo davvero stimolante.» (Murakami Haruki, Ozawa Seiji, Assolutamente musica – Einaudi, 2019)
Non dimentichiamo che in questo paese abbiamo appena avuto l’astensione del centrodestra al Senato sull’istituzione della Commissione su razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio promossa dalla senatrice a vita Liliana Segre, scampata al genocidio nazista. Come scrive Michele Serra: «Nella migliore delle ipotesi, l’ostilità della Lega a sanzionare il razzismo, l’antisemitismo e l’omofobia deriva da un’impostazione “liberale”: non si può formalizzare, come pretende di fare il politicamente corretto, la lotta all’odio. È più o meno questa la spiegazione che la senatrice Barbara Pucciarelli, sia pure in modo approssimativo, fornisce dell’astensione sulla Commissione Segre.
Nella peggiore delle ipotesi, la Lega è invece contraria a sanzionare razzismo e omofobia perché nei suoi ranghi pullulano non solo parole razziste e omofobe, ma anche persone razziste e omofobe, come testimonia, purtroppo, una più che ventennale produzione di frasi e gesti politici che di liberale hanno zero, e di intollerante e discriminatorio, moltissimo.»
Le peggiori atrocità della storia pubblica e privata sono sempre state compiute dietro ignobili muri di parole.