In verità, in verità, io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non morrà, rimarrà solo; ma se morirà, darà molto frutto. (Vangelo di San Giovanni, XII, 24)
Fëdor Dostoevskij ha posto questa citazione evangelica in esergo al suo grande romanzo I fratelli Karamazov. Ci si potrebbe interrogare sul motivo per cui lo ha fatto; e ci si potrebbe rispondere che anche lui intendeva criticare la superficialità “intellettuale” dei suoi contemporanei e della società in cui viveva. Dostoevskij non è certo stato l’unico: in tutte le epoche – compresa la presente – troviamo infatti autori anche eccelsi che esprimono la stessa convinzione rispetto ai tempi in cui vive. Ad esempio Montaigne, che a sua volta si rifà a Plutarco:
«Bisognerebbe interessarsi di chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più. Noi lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l’intelletto e la coscienza. Proprio come gli uccelli vanno talvolta in cerca del grano e lo portano nel becco senza assaggiarlo per imbeccare i loro piccoli, così così i nostri pedantes vanno spigolando la scienza nei libri e la tengono appena a fior di labbra, tanto per ributtarla fuori e gettarla al vento. (…)
Ma, quel che è peggio, neppure i loro scolari e i loro ragazzi se ne alimentano; anzi essa passa di mano in mano, al solo fine di farne mostra, di conversarne con altri e di farne dei racconti, come moneta di nessun valore, inutile ad ogni uso e impiego che a contare e a servire di gettone.» (Michel de Montaigne, Saggi – Libro I, Cap. XXV)
Montaigne cominciò a scrivere i suoi Saggi a partire dal 1570 e continuò a lavorarci fino alla scomparsa, avvenuta nel 1592. Ma senza citarlo, egli cita qui l’adorato Plutarco, che nei Moralia paragona appunto i sofisti, interessati solo a esibire il loro sapere, all’uccello che porta nel becco il granello e lo dà ai suoi piccoli, senza assaggiarlo, senza cioè cibarsene.
Con un salto di oltre quattro secoli veniamo ai tempi nostri. Antonio Scurati ha scritto un articolo sul Corriere della Sera il 15 ottobre scorso, La nostra vita tutta al presente (senza futuro e senza nascite): «La mia generazione d’italiani è stata tra le più infeconde della storia dell’umanità. Ci hanno definiti «generazione X»: nati tra il 1960 e il 1980, cresciuti all’ombra dei più numerosi e aggressivi baby boomers, inquadrati storicamente nella smobilitazione ideologica seguita alla guerra fredda, lo stereotipo ci vuole privi di identità sociale marcata, apatici, cinici, poveri di valori radicati e di affetti profondi. Una generazione tecnologica ma «piccola», invisibile, sfiduciata, scettica. Che sia vero o meno, una cosa è certa: abbiamo messo al mondo pochissimi figli.»
La bassa natalità è un dato oggettivo; Scurati si interroga perciò sui motivi e riporta ragioni biologiche, sociologiche e politiche. Però aggiunge: «Detto ciò, dobbiamo essere onesti con noi stessi. (…) La parte più amara di questa verità è che il calo demografico in Italia — e in Occidente — non accade per ragioni materiali e contingenti. Nessuna analisi delle nostre condizioni di vita materiale giustifica la nostra infecondità generazionale. La controprova è semplice. Basta voltarsi indietro: i nostri padri e le nostre madri nacquero, numerosi, sotto le bombe. La nostra infecondità, il nostro braccino corto con la vita va imputata, invece, principalmente, a ragioni culturali e — mi si permetta il parolone, non a caso desueto — a ragioni «spirituali».
Affacciatici alla vita adulta nei mirabolanti anni ’80 — un combinato di edonismo sfrenato, individualismo disperato e ottimismo patinato — sospinti dalla fanfara fasulla della «fine della storia», abbiamo vissuto a lungo, troppo a lungo, sotto dettatura della cronaca, misurando le nostre esistenze sul metro breve del presente assoluto. Un metro su cui non trovano spazio le grandi scene della vita: l’amore, l’arte, la politica (quella vera), la generazione di figli.
Come scrisse Leavitt: «Era sempre sabato sera e stavamo sempre andando a una festa». Ora che la festa è finita, per età anagrafica ed età del nomondo, dobbiamo riconoscere che, come mosche imprigionate nel bicchiere rovesciato, per trent’anni abbiamo cozzato contro il vetro opaco della breve durata, prigionieri del presente. (…) Giunti alla maturità (questa sconosciuta), dobbiamo trarne una lezione. Dobbiamo adottare il futuro come unità di misura di quel che ci resta da vivere. E come criterio di valutazione — post ideologico, postpartitico, post tutto — dei sedicenti liquidatori della «vecchia politica». Ogni annuncio, ogni programma, ogni legge deve essere valutata chiedendoci: quanto è ampio l’arco temporale che abbraccia nelle sue previsioni, effetti, conseguenze? Quanto respiro ha? Vive in un vasto orizzonte storico o vivacchia nelle angustie della cronaca?
Non c’è dubbio che, se si adottasse questo criterio, al primo posto di ogni programma di governo dovrebbero esserci l’ecologia e l’istruzione. (…) Pretendiamo dai nostri politici provvedimenti legislativi imperniati sul criterio del futuro ma ricordiamo a noi stessi che resteranno sterili se non accompagnati da un nuovo orientamento culturale e, perfino, da una rinascita spirituale. Non basteranno le leggi e nemmeno i mutamenti culturali. L’essere nel tempo è appannaggio dello spirito.»
Leggiamo articoli illuminati e illuminanti come questo; poi torniamo alla dura realtà:
«Il romanzo di formazione di Salvini e Renzi è la tivù commerciale degli anni Ottanta, da lì hanno tratto modi e linguaggio. Lo ha detto a Radiouno il sociologo della comunicazione Massimiliano Panarari, a commento del duello tivù tra i due Mattei. Salvini (che è del ’73) e Renzi (’75) sono persone diverse e hanno idee molto diverse. Apparentarli politicamente può essere, al massimo, un espediente polemico e/o una comodità giornalistica. Però l’affermazione di Panarari aiuta a leggere i tempi (…)
Questa maniera risponde prima di tutto all’esigenza di “piacere alla gente”. Perché bisogna fare numero: audience o voti è la stessa precisa cosa, come dimostrò Berlusconi alla sbigottita platea primo-repubblicana, che di colpo si ritrovò spiazzata, invecchiata e spodestata. Dunque veloci, sicuri di sé e convincenti anche quando la materia trattata suggerirebbe esitazione, dubbio, sguardo chino sui testi (in una parola sola: cultura).» (Michele Serra – la Repubblica 17 ottobre 2019)
Gramsci ha scritto: «Non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione». Pier Paolo Pasolini invece chiedeva: «Qual è la vera vittoria, quella che fa battere le mani o quella che fa battere i cuori?». Domanda retorica con risposta implicita, avrebbe commentato il mio professore di italiano. Ma il commento migliore al dibattito in oggetto viene forse da Stefano Balassone: «…ognuno ha parlato al proprio seguito (come ci dice la inusuale costanza dell’ascolto nonostante l’ora tarda) usando l’altro come semplice sponda del contrario. Queste sono del resto, se il giornalismo si limita a reggere il microfono, le regole del comunicare nella tv e nei social media.
Il risultato, inevitabile, è che i protagonisti si riducano a burattini di se stessi, parlino attenti solo agli echi e si tengano a un livello elementare. Dal quale può derivare tutto e il suo contrario (…) Però anche noi nel nostro piccolo, ci siamo sentiti intrappolati dalla corale dismissione della complessità a pro’ dello spettacolo. E quindi, pensando al mare di chiacchiere stereotipate che ci attende da qui all’estate prossima, ci viene da chiederci se proprio ora non vi sia qualcuno tanto eroe da mettersi contro le regole correnti. A partire dalla RAI a cui il canone dovrebbe rendere meno doloroso trasformare i linguaggi e spingersi su contenuti che guardino un poco oltre il proprio e nostro naso. In caso contrario vorrà dire che il Quarto Potere è cosiddetto perché è parte in causa, al massimo impegnato a rendere più vivace lo spettacolo, e misurare sera per sera i ricavi attesi dagli sponsor.»
In altre parole, dai tempi di Plutarco non è cambiato molto: i sofisti e i demagoghi continuano a gonfiare il proprio ego, a navigare in superficie e a disinteressarsi del resto. Cambiano solo i mezzi di comunicazione a loro disposizione, oggi incomparabilmente più potenti di ieri. “Pessimismo dell’intelligenza ottimismo della volontà”, certo; ma la volontà e l’intelligenza di ieri non sono sufficienti quando l’orizzonte culturale medio non supera la punta del proprio naso. La storia dimostra che volontà e intelligenza non bastavano nemmeno ai tempi di Gramsci, quando di Gramsci ce n’erano davvero (casomai in galera…). Nel terzo millennio, a maggior ragione, urge un cambio radicale di paradigma politico-culturale. Altrimenti di rinascita spirituale non solo nessuna traccia; neanche una minima possibilità.
Il brano Un romantico a Milano dei Baustelle è contenuto nell’album La malavita (20015)