Indorare la pillola

Basta un poco di zucchero e la pillola va giù / la pillola va giù, la pillola va giù / Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, tutto brillerà di più…

Chi è che non ha visto almeno una volta nella sua vita Mary Poppins? L’abbiamo visto tutti. È il notissimo film americano di genere “musical-fantasy”, la cui protagonista è interpretata da Julie Andrews. diretto nel 1964 da Robert Stevenson e prodotto da Walt Disney.  Molto meno noto è il fatto che esso fu basato sul romanzo omonimo scritto da Pamela Lyndon Travers nel 1934. Lyndon Travers lo scrisse quando era poco più che adolescente per alleviare le pene delle proprie sorelle, colpite in negativo dallo stato depressivo in cui versava la loro madre. Un fatto poi ancora meno noto – per non dire completamente sconosciuto – è che “la Travers svolse il ruolo di consulente durante la stesura del copione del film, però non approvò il modo in cui il carattere di Mary Poppins, nel libro severa e dura, venne “diluito”, facendola diventare dolce ed amorevole. Ebbe da ridire anche riguardo alle canzoni, che per lei erano troppe, e odiò anche le sequenze animate che compaiono in più punti del film. La scrittrice obbiettò anche riguardo ad altri aspetti che vennero di fatto messi nel film.” (da Wikipedia)

La più nota delle canzoni e una delle scene più famose del film è appunto la seguente:

Ho sempre avuto l’impressione (anzi la convinzione)  che questo film piacesse molto, ma molto di più agli adulti  che ai bambini a cui, in teoria, sarebbe destinato. Se questa sensazione fosse fondata, ciò sarebbe al tempo stesso sbagliato per certi aspetti, inquietante per  altri. Per quale motivo? Provo a spiegare.

Scrive Domenico Starnone: «I tranquillanti si acquistano in farmacia, non al botteghino e nemmeno in libreria. Non solo. Versare melassa su pagine di una verità bruciante per mutarle in merce consolatoria andrebbe considerato un crimine. A questo proposito bisogna leggere il breve saggio di Cynthia Ozick intitolato Di chi è Anne Frank? (La nave di Teseo 2019). Il testo, pubblicato nel 1997, non si esaurisce nell’analisi di come si è scientemente ridotta a dimensioni spettacolarmente aggraziate “la smisurata verità del male” nominata da Anne. Esso ricorda a noi, il pubblico, oggi, che ogni richiesta di indorare l’orrore non solo è vile ma è complice.» (Domenico Starnone, “Melassa criminale” – rubrica “Parole” su Internazionale n. 1299 )

Condivido pienamente quanto sopra. E subito dopo mi chiedo: di cosa tratta il libro di Cynthia Ozick?

«Apparso per la prima volta nel 1997 sulle pagine del “New Yorker”, questo impetuoso, lucidissimo saggio di Cynthia Ozick strappa il velo di dissimulazione e retorica che negli anni ha ovattato e mistificato la limpida voce di Anne Frank e del suo Diario.
Troppo spesso e troppo a lungo oggetto di interpretazioni semplificate e fuorvianti, di appropriazioni indebite, tradimenti e comode “santificazioni”, il Diario è servito da lasciapassare per un’amnesia collettiva – storica e culturale – sulle cause e le circostanze della morte della sua autrice e di milioni di altre vittime dell’Olocausto. La depravazione e la ferocia dei nazisti, il male che ha consumato la protagonista, sono stati attenuati e sorpassati nel tempo dal solo battere della critica, dell’editoria, dei lettori e persino del padre – Otto Frank – sul tema della bontà e della forza umana, utilizzando strumentalmente la voce di Anne per costruire un discorso sul passato tanto rassicurante quanto sterile.

Cynthia Ozick, ripercorrendo con il ritmo e la forza che le sono propri, le vicissitudini storiche, editoriali e teatrali del libro universalmente considerato il simbolo della Shoah, ci mette in guardia dalle conseguenze di questa tendenza: ammorbidire la Storia, nel tentativo di renderla più sopportabile, equivale a tradirla; tradirla equivale a negare – in una discesa inarrestabile verso il buio della ragione – ciò che è stato, gettando le basi perché possa avvenire ancora.» (dalle note di copertina)

Paradossalmente, uno dei principali imputati  è proprio il padre di Anne, Otto Frank, sopravvissuto alla figlia. Egli infatti «…preferì accentuare ciò che chiamava “la positiva visione della vita  di Anne. Anche la più famosa frase del Diario (infamemente celebrata, si potrebbe aggiungere) – “Nonostante tutto, credo tuttora all’intima bontà dell’uomo” –  è stata trasformata nel suo stesso letto di spine. (…) Ma perché proprio questa frase dovrebbe essere presa a emblema e non, per esempio, un’altra? Nell’uomo c’è proprio l’impulso di distruggere, di uccidere, di assassinare e di infierire, Anne scrisse il 3 maggio 1944, interrogandosi sulla diffusione della colpa. Queste parole non ammorbidiscono né alleviano o dissimulano l’orrore dilagante del suo tempo. Né gettano fumo negli occhi della storia.

Otto Frank era cresciuto con il bisogno sociale di accontentare il suo ambiente e di non offenderlo; era la condizione per entrare nelle sfere dominanti, un prezzo che gli ebrei tedeschi avevano negoziato con loro stessi.» (Cynthia Ozick)

L’inseguimento del senso comune induce sempre a “indorare la pillola” con pigra passività; ad evitare contrasti faticosi anche se. magari, più che giusti e a volte addirittura necessari. Di conseguenza, per  esempio, il nazista di famiglia (anche acquisita, ci mancherebbe) è sempre diverso, più buono, più onesto e coraggioso di tutti gli altri. È un criminale, sì, ma un “criminale giusto”, che agiva all’ombra della mutevole legalità dei tempi.  La linea etica soccombe così alla linea di parentela; si sottomette alla prossimità, all’opportunismo, al timore dettato da possibili contrasti di vicinato. Alla lunga, però, queste miopi codardie conducono inevitabilmente al declino sociale, perché l’inerzia della volontà conduce sempre al disastro politico e culturale: a non distinguere più la via giusta da quella facile. Distinzione non sempre  semplice; tuttavia un conto è provarci di volta in volta, consapevoli della complessità della faccenda; tutto un altro è scegliere a prescindere la via più comoda. Tomaso Montanari e Vincenzo Trione – e noi con loro – sono convinti che questo succede quando:

«Ci si misura con la Storia con superficialità e leggerezza. Se ne eliminano le inquietudini, le domande, le ansie. Se ne trasformano alcune tracce decisive – pittoriche, scultoree e archeologiche – in momenti di un intrattenimento passeggero. Si aderisce insomma, ai riti della nostra epoca, in cui sovente siamo portati a “contemplare con cinismo e disprezzo tutto ciò che ci annoia, ci preoccupa e ci ricorda che la vita non è solo svago, ma anche dramma, dolore , mistero”.» (T. Montanari , V. Trione: Contro le mostre – Einaudi, 2017)

Come scrive Starnone, non va bene così: se i tempi sono bui, il buio va rappresentato. E se sono fulgidi, bisogna prestare orecchio – anche se ci guasta la festa – a chi ci ricorda che la tenebra è dietro l’angolo. “L’intima bontà dell’uomo” è una falsità oggettiva  a cui  può credere solo una ingenua bambina innocente. La realtà storica dimostra, al contrario, chenell’uomo c’è proprio l’impulso di distruggere, di uccidere, di assassinare e di infierire“. Se il mondo della cultura e dell’arte vuole convincerci del contrario (“È un gioco però, vero Mary Poppins?“), allora tanto vale seguire il saggio consiglio di Giorgio Gaber:

In testata: un’immagine di Banksy – L’illustrazione che segue è di Zerocalcare (2018)

 

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