La festa del lavoretto

«A vent’anni mi capitava, per le vie del mio paese, di guardare i necrologi e dalle scarne righe dei testi di cordoglio provare a immaginare qualcosa del defunto. L’alfabeto del lutto sul fronte familiare era ricco, allora come oggi: da morti tutti diventano gli affettuosi mariti e amorosi padri della cui scomparsa il triste annuncio andava forse dato mentre erano in vita. La nota che mi incuriosiva però non era tanto quell’ipocrisia postuma, quanto il fatto che spesso sull’annuncio comparisse anche la qualifica professionale del morto. Il signor Mario Rossi che veniva pianto pubblicamente come “finanziere in pensione” era il monumento funebre a un tempo in cui il mestiere di qualcuno poteva ancora coincidere con la sua identità sociale, al punto da continuare a definirla persino da pensionati e da morti. (…)

La mia generazione a quella favola del rinnovarsi rinnovando contratti un po’ ci ha creduto e un po’ no, ma in ogni caso per quel viaggio verso pianeti lavorativi in cui nessuno era mai giunto prima ci siamo poi partiti tutti, più o meno ignari di essere nella pancia di un paese-astronave claustrofobico e obsoleto, che la forza del salto nell’iperspazio economico non l’aveva più da almeno dieci anni. Ricordando adesso quei necrologi di paese così precisi nel far coincidere il chi e il cosa, ho pensato che alla nostra morte una cosa del genere non potrò accadere. La quantità di lavori che una persona nata dopo gli anni 70 ha fatto nella vita è mediamente così alta che solo qualcuno con un disturbo da personalità multipla proverebbe a fondarci la sua identità. “Il mio nome è legione” — diceva il demonio a Cristo che cercava di esorcizzarlo — “perché siamo in molti”, e molti (troppi) sono i giovani che anche oggi sperimentano il lavoro come girone infernale, faticando quanto e più dei propri genitori, ma senza un’ombra delle loro garanzie. (…)

Il lavoretto ha preso il posto del lavoro, trasferendo il diminutivo a tutti i suoi aspetti: paghetta, dirittucci e durate effimere, da schermata di Instagram. Grazie ai contratti alla bisogna usati con spirito corsaro anche da chi ha necessità di te ogni santo giorno, l’Istat oggi è costretto a considerare occupato anche chi lavora una sola ora alla settimana, passando per mestiere quelle che tutt’al più sono performance dadaiste. Far festa al lavoro in questo clima somiglia al fissare un necrologio alla ricerca di una parola di cordoglio che almeno una volta dica la verità su chi/cosa non c’è più.» (Michela Murgia – la Repubblica, 1 maggio 2019)

«Della stagione dei diritti si è fatto carne da macello, il lavoro è l’elemosina di un capitale sempre più ingordo e miope (occhio che prima o poi qualcuno s’incazza davvero, mica su Facebook). Sarebbe bello che ci fosse una Greta interessata ai tempi dell’occupazione, perché se la sua generazione non può subire in silenzio le politiche ambientali, non può nemmeno essere condannata al lavoretto nella cieca idolatria della flessibilità. Ma il sistema, che dà voce (e per carità) alle verdi istanze degli adolescenti, non farebbe lo stesso con quelle economiche perché sono necessarie al mantenimento di uno status quo fondato sulle disuguaglianze, sullo sfruttamento, sul caporalato e sul cottimo. (…) Cari compagni, un po’ di redistribuzione male non fa. Certo, non è con la mancia che si ripareranno i danni che anche voi avete fatto nel distruggere sistematicamente i diritti dei lavoratori (che giustamente non vi votano più). I rider forse non sanno usare le posate a tavola, ma del resto la rivoluzione non è un pranzo di gala, e loro ne sanno qualcosa dato che i pranzi li consegnano.

Quella di oggi non è più una festa, è un simulacro senza alcun valore. Non c’è nemmeno più la consolazione di stare a casa perché un sacco di gente lavora dato che il nuovo Vangelo è consumare, spendere, comprare. Sono rimasti la farfalla che muore sbattendo le ali, il guerriero di carta igienica e la donna che stira cantando. Su coraggio nessuno ha più il coraggio di dirlo. (Silvia Truzzi – il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2019) Del resto, per dirla con il Manzoni, «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare.» Tanto meno in un paese a prevalenza di don Abbondio incattiviti e ipercritci rispetto a tutto e tutti. Tranne se stessi.

«La sai quella del quarantenne che cerca lavoro? Il tipo si mette seduto davanti al responsabile delle risorse umane e dice: – “Sono qui alla ricerca di un lavoro a tempo determinato.” L’uomo dell’azienda sorride e con pacatezza espone la sua offerta: –  “Bene! Le piacerebbe il buon vecchio posto fisso? Io le posso offrire quattordici mensilità, ferie e malattie pagate. Colonia per i figli, alloggio a prezzo agevolato, auto aziendale con rifornimento a spese nostre e chilometraggio illimitato. Che ne dice?” E il quarantenne: – “Dico che lei mi sta prendendo in giro” – “Certo” – fa quello dell’azienda – “però ha cominciato lei!”» (da Ascanio Celestini, Barzellette – Feltrinelli, 2019)

Fa ridere? Sì fa un po’ ridere; ma è un riso davvero amaro.

Il brano di Francesco De GregoriDignità” è contenuto nell’album “De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto” (2015)
Nella foto sopra: Rosa Parks Il primo dicembre 1955, su un autobus dell’Alabama si rifiutò di alzarsi dal posto riservato ai bianchi e per questo venne denunciata e arrestata. Quel gesto, immortalato in questa fotografia che è divenuta celebre, ha cambiato la storia dei diritti civili.

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