La parola che manca

 

«Perché la letteratura contemporanea ci lascia in pace? Perché, nella maggior parte dei casi, non ci scaraventa giù dalla sedia? Perché non ci fa un occhio nero? Perché non passa col rosso? Perché rinuncia ad affondare il colpo? Perché fa finta di non vedere? Perché vuole sempre vincere? Perché si ostina a non voler avere torto?»

Un marzullesco Marco Archetti  si è posto questa domanda, e subito si è risposto: «Il fatto è che lo scrittore non sta più seduto al proprio posto. Lo scrittore, mentre scrive, si alza. E si alza sempre più spesso. Dove va? Va a sedersi accanto al lettore, abiurando la distanza. Ma da lì – dal lato lettore, oltre la più sacrosanta e invalicabile linea Maginot del patto – lo scrittore non è più uno scrittore, e si è già trasformato in altro. Si è trasformato in un complice. In un garante di innocuità. In sentinella di sé stesso con l’alibi di un altro. “Non ti farò male,” sussurra all’orecchio dell’implume. “Sono qui per dirti che ce la farai,” flauta dolcissimo. “Poi sentirai che sollievo, te lo prometto” […] Perché questo assalto al Pulpito? Cormac McCarthy ce le cantava chiare: “Scrivere è dire qualcosa che nove persone su dieci non condivideranno”» E già così si capisce molto bene perché la letteratura (e non solo la letteratura) oggi come oggi ci lascia in pace.

Del resto, se sono stati inventati e commercializzati i Lazy Glasses [Occhiali (per) Pigri!] qualcosa vorrà pur dire. Antonio Gurrado chiama infatti in causa la responsabilità del lettore, e ne ha ben donde: «Il narratore inattendibile, su cui si è fondata la qualità di buona parte della letteratura del Novecento, non sembra più trovare spazio in quella del Duemila, ucciso dalla figura emergente del lettore inaffidabile. Martin Amis sostiene che sia questa la grande novità nella storia letteraria. Scrive in “La storia da dentro” (Einaudi) che non corteggiamo più la difficoltà perché il rapporto lettore-scrittore ha cessato di essere anche solo minimamente collaborativo. “Qualsiasi cosa tu faccia, non aspettarti che il lettore deduca qualcosa”. Addio al narratore inattendibile – a Zeno Cosini, ad Alex Portnoy – e a ogni crepa che lasci traspirare un po’ di luce fra la persona che ci racconta qualcosa dicendo “io” e tutte le domande più o meno scettiche che potremmo porci sulla sua identità e sulla sua credibilità. Il lettore non collabora più. “Ogni informazione vitale deve essere enunciata in linguaggio elementare” […]

Joyce esagerava un po’ auspicando “un lettore ideale affetto da un’insonnia ideale”, ma adesso il lettore soffre di paralisi da pigrizia. Nei centri commerciali, spiega Giampaolo Simi in “Sarà assente l’autore” (Sellerio), “le scale mobili sono lì per tutti quelli che camminano benissimo. Ora, un bestseller deve arrivare anche ai consumatori. Cioè a gente che non vuol far fatica, mai”.» Come se la quantità della “merce” venduta all’opinione pubblica potesse supplire alla sua scarsa qualità. Non è affatto così. Daniele Del Giudice ci aveva avvertito: «Uno dei grandi problemi della democrazia è che questa forma di governo più di ogni altra  esige da ciascuno di noi la massima qualità.» E vivendo in tempi di quantità, dobbiamo forse rassegnarci all’«impossibile qualità della quantità»?

Pollyanna è la bambina protagonista dell’omonimo romanzo scritto nel 1913 da Eleanor Porter. È entrato nell’uso corrente dell’inglese americano a designare, secondo il il Webster’s Dictionary, «chi possiede un’indole caratterizzata da un incontenibile ottimismo e una tendenza a trovare il lato positivo di ogni cosa; una persona eccessivamente e spesso ciecamente ottimista; una persona allegra in maniera indisponente.» Ora, tutti noi indossiamo delle “maschere” linguistiche (serie di abitudini verbali) con le quali affrontare il mondo: una maschera diversa per ogni occasione. «E una delle maschere più utili che esistano, almeno per affrontare le situazioni problematiche, è quella da Pollyanna evangelizzata. […] Non saprei dire perché questa maschera salti fuori più spesso nel linguaggio scritto che nel parlare quotidiano – ovverosia perché l’arte di scrivere diventi un modo di abbellire e rendere e rendere rassicurante la realtà. […]

Ad ogni modo, se non si riesce a strapparla, la maschera da Pollyanna rappresenterà la rovina dello scrittore. Le persone che si sforzano abitualmente di provare quell’ottimismo qualunquista che tale maschera incoraggia non possono fare a meno di maturare dei legittimi interessi in quel loro modo di parlare, sentire e vedere le cose – e questo comporterà due risultati: perdere la facoltà di vedere le cose con chiarezza e perdere la facoltà di comunicare con chiunque non vede e non senta nello stesso modo benevolmente distorto. Una volta che si è fatto un forte investimento psicologico in un certo genere di linguaggio, si hanno dei problemi sia a capire che esso distorce la realtà, sia a capire come gli altri – in questo caso le persone che hanno una visione più cauta o lievemente ironica – non se ne rendano conto. Nessuno che abbia una visione distorta della realtà è in grado di scrivere buoni romanzi, e questo perché, mentre leggiamo, paragoniamo gli universi romanzeschi all’universo reale. […] La maschera da Pollyanna è soltanto una fra i tanti comuni modi di evadere la realtà.» (John Gardner)

Jamaica Kincaid scrive: «È che agli scrittori, oggi, non importa più mettere sassolini taglienti nelle scarpe dei lettori. Forse viene detto loro che devono assecondarli, accarezzarli. Invece io continuo a pensare, ostinatamente, che dare fastidio sia tutto ciò che la letteratura deve fare».

Nel frattempo, invece, un notissimo «scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, saggista, autore e conduttore televisivo, critico musicale, pianista, sceneggiatore, regista, conduttore radiofonico» – che tra l’altro qualcuno include «sicuramente fra i più importanti esponenti della narrativa italiana contemporanea» – scrive quanto segue:

«Esce il mio nuovo romanzo, Abel, e mi viene da festeggiarlo raccontando a tutti la sua genesi curiosa, una storia piuttosto mia, personale, che tuttavia adesso mi piace condividere qui. Il fatto è che qualche anno fa mi è accaduto di pensare che dopo tanti romanzi e tanto lavoro mi sarebbe piaciuto provare a staccare il gesto dello scrivere da quello di mantenere in qualche modo me e la mia tribù. Devo essermi chiesto: ma cosa accadrebbe se io non avessi nessuna necessità materiale di scrivere? Continuerei a farlo, scriverei diverso, meglio, peggio? Ho in serbo da qualche parte uno scrittore libero che non ha mai potuto uscire da un qualche esilio? Mi sa che tutti gli scrittori, prima o poi, una domanda del genere se la fanno.» Tutti gli scrittori veri – ci permettiamo di osservare – questa domanda se la pongono dall’inizio.

Abel, allora. Sappiate comunque che di tratta di “un western metafisico” – qualsiasi cosa questo significhi. Riportiamo qui qualche frammento di testo: «Siamo già stati dove non siamo mai stati» medita l’eroe protagonista, il famoso pistolero Abel Crow, «e anzi, a dirla tutta, veniamo da lì. […] La vita corre comunque, non ha bisogno di noi per farlo… Noi c’entriamo poco, fa tutto da sola. Se vi dovesse accadere di incrociarla, non abbiate paura. Datele una mano e godetevi lo spettacolo”.»

Dice l’autore: «Un giorno sono tornato a casa, ho acceso il computer, ho aperto un file e ho scritto: Un western metafisico. Non avevo una storia, ancora meno una trama e se devo dirla tutta neanche uno straccio di un personaggio. Ma dovevo scrivere, dovevo farlo al più presto, dovevo farlo subito. Ho lasciato che emergesse dal nulla una scena, semplicemente una scena. La vidi arrivare. C’era gente sui bordi ultimi della Frontiera. Trovare la voce giusta fu un attimo. Iniziai a scrivere. Alla seconda riga c’era già uno sparo. Fantastico. […]»

Contrariamente a quanto faccio talvolta nei miei romanzi, in Abel non ho scritto la parola Fine, nell’ultima pagina, in maiuscolo. Sapevo cosa sarebbe successo. Il computer l’ho riaperto ben prima che uscissero le prime bozze di copertina. Mi venivano incontro altre scene. Ho ripreso a scrivere lento e di rado. Ho ripreso a respirare dal punto in cui mi ero interrotto. Il primo canto nuovo l’ho dedicato al dottor Wood: adoro il suo humor e la confusione con cui passa sulla terra. È quello che cura i pazzi. Ma insomma, chi leggerà capirà. Si troverà bene, con lui. Io ci passo insieme intere serate. Never ending book.» (la Repubblica, 7 novembre 2023)

A nostro parere, quanto sopra spiega davvero molte cose. Infatti, se da un lato ci interroghiamo sulla qualifica del testo come “western” metafisico“, in compenso sappiamo bene come si traduce never ending book: libro senza fine. E sappiamo anche come si traduce Go Insane.

Traduzione del testo: Due tipi di persone in questo mondo/ Vincitori, vinti/ Ho perso il mio potere in questo mondo/ Perché non l’ho usato/ Quindi impazzisco/ Come faccio sempre/ E io chiamo il tuo nome/ È molto simile a te/ Due tipi di problemi in questo mondo/ Vivere, morire/ Ho perso il mio potere in questo mondo/ E le voci volano/ Quindi impazzisco/ Come faccio sempre/ E io chiamo il tuo nome/ È molto simile a te

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