UNO. Gustave Flaubert attribuiva al termine borghese il significato di «filisteo», di persona che si interessa esclusivamente all’aspetto materiale della vita e crede solo in valori convenzionali. Non dava a questo termine il significato politico-economico marxista; per lui l’essere borghese implicava una condizione mentale, non una condizione economica. E in Madame Bovary ha scritto: «… nessuno è in grado di esprimere l’esatta portata dei propri bisogni, delle proprie idee, o delle proprie pene; la parola umana è come un paiolo incrinato sul quale battiamo dei motivetti buoni a far ballare gli orsi, quando invece vorremmo commuovere le stelle.»
Il filisteo – il borghese flaubertiano – tende ad allinearsi sempre, per pigrizia e convenienza, al cosiddetto «senso comune». Senonché il suddetto «senso comune» pretenderebbe l’esistenza di una rassicurante, scientificamente descrivibile «verità oggettiva» esterna sulla quale fondare le proprie indiscutibili certezze. Ne consegue allora che il filisteo entrerà per definizione in conflitto con coloro che non sono affatto della stessa opinione; ad esempio quelle persone convinte che la parola umana sia solo una terracotta crepata che suona vuoto e che la cosiddetta “realtà oggettiva” non sia nient’altro che un “guscio vuoto e rotto” dal contenuto oscuro e indefinito. Come ha scritto Nabokov: «Il senso comune è squadrato, mentre tutte le visioni e i valori più essenziali della vita sono stupendamente smussati, rotondi, come l’universo o gli occhi di un bambino la prima volta che vede uno spettacolo circense.»
DUE. Infatti: «Prendiamo tre uomini che transitano per lo stesso luogo: il Numero Uno è un uomo di città che si sta godendo una meritata vacanza; il Numero Due è un botanico di professione; il Numero Tre è un agricoltore del posto. […] Ecco quindi che abbiamo tre mondi diversi – tre uomini, tre persone comuni con realtà diverse, e naturalmente potremmo allungare l’elenco con tantissimi altri individui: un cieco con un cane, un cacciatore con un cane, un cane con il padrone, un pittore che vaga senza una meta precisa alla ricerca di un tramonto, una ragazza rimasta senza benzina, e via dicendo. In ciascun caso avremmo un mondo totalmente diverso dagli altri, dato che le parole più oggettive quali albero, strada, fiore, cielo, granaio, pollice, pioggia hanno per ognuno di loro connotazioni soggettive differenti. Infatti, la vita soggettiva è tanto forte da ridurre la cosiddetta esistenza oggettiva a un guscio vuoto e rotto. C’è un solo modo per ritornare alla cosiddetta realtà oggettiva: prendiamo tutti quei mondi individuali, li mescoliamo ben bene, raccogliamo una goccia della miscela, e la chiamiamo realtà oggettiva. […] Così, quando parliamo di realtà, in effetti intendiamo tutto questo, contenuto in un’unica goccia: il campione medio della miscela di un milione di realtà individuali.» (Vladimir Nabokov: Lezioni di letteratura – Adelphi, 2018)
«Forse conoscete questo modo di dire: “Dai un martello a un bambino, e ogni cosa gli sembrerà un chiodo.” Quando si hanno competenze preziose, si è impazienti di metterle in pratica. Certe volte l’esperto va in cerca di modi per sfruttare le sue conoscenze e capacità, faticosamente conquistate, anche al di fuori dell’effettivo ambito di applicazione. Così gli appassionati di matematica possono fissarsi sui numeri. Gli attivisti per il clima perorano la causa dell’energia solare ovunque e i medici promuovono le cure dove invece sarebbe più efficace la prevenzione. Le conoscenze profonde possono interferire con le capacità dell’esperto di capire cosa funzioni davvero. Tutte queste soluzioni sono ottime per risolvere un determinato problema, ma nessuno li risolverà tutti. È meglio guardare il mondo in tanti modi diversi. (Hans Rosling: Factfulness – Rizzoli, 2018)
TRE. Una delle pochissime caratteristiche comuni all’intero genere umano è quella di nutrire un innato, perenne desiderio di raggiungere il piacere e la felicità. Purtroppo, però, ciascun individuo non solo matura prestissimo un suo particolare concetto di piacere e felicità, ma decide anche (o crede di decidere) un suo personale percorso finalizzato all’obiettivo; ciascun martello andrà quindi a caccia del proprio chiodo. Ora: sappiamo tutti che Giacomo Leopardi non era particolarmente ottimista rispetto al destino del genere umano; nella sua “Teoria del piacere“, infatti, egli sosteneva non solo l’impossibilità di appagare il desiderio infinito di piacere che caratterizza la natura umana, ma ne derivava anche la funzione consolatoria delle speranze e delle illusioni. Ciascuno avrà pure la sua opinione in proposito, tuttavia bisogna riconoscere che il suo ragionamento risulta piuttosto stringente. Vediamo.
“La teoria del piacere” è una concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero leopardiano in questi termini avviene dal 12 al 25 luglio 1820. Egli sostiene che l’uomo nella sua vita tende sempre a ricercare un piacere infinito come soddisfazione di un desiderio illimitato. Esso viene cercato soprattutto grazie alla facoltà immaginativa dell’uomo che può concepire le cose che non sono reali. Poiché grazie alla facoltà immaginativa l’uomo può figurarsi piaceri inesistenti e figurarseli come infiniti in numero, durata ed estensione, non bisogna stupirsi che la speranza sia il bene maggiore e che la felicità umana corrisponda all’immaginazione stessa.
QUATTRO. Per Leopardi, la natura fornisce tale facoltà all’uomo come strumento per giungere non alla verità, ma ad un’illusoria felicità. Anche l’occupazione (che può essere considerata la soddisfazione continua degli svariati bisogni che la natura ha fornito agli uomini) è una condizione che porta felicità nella vita dell’uomo. Ad essa si oppone il tedio, la noia, che è il male più grande che possa affliggere l’umanità. La felicità, dunque, è più facilmente trovata dai fanciulli che riescono sempre ad immaginare e perdersi dietro ogni “bagattella”, ovvero riescono a distrarsi con ogni sciocchezza. Secondo Leopardi l’umanità poteva essere più vicina alla felicità nel mondo antico, quando la conoscenza scarsa lasciava libero corso all’immaginazione. Nel mondo moderno, invece, la conquista del vero ha portato l’immaginazione ad indebolirsi fino a sparire del tutto negli adulti.
Björn Larsson sostiene che « l’errore – sostenuto da tutti i relativisti o idealisti di ogni tempo, da Platone ai postmoderni – è di pensare o di lasciare intendere che concetti o idee, anche condivisi, siano garanzie di esistenza. In effetti, è la precarietà del rapporto tra il senso e il reale il terreno preferito da tutti i demagoghi, dai dittatori e da coloro, compresi No Vax e complottisti, che vogliono farci credere che non esistono verità e fatti. I manipolatori di ogni colore alimentano la confusione tra il senso e il reale per convincerci, come accade per i bambini, che siccome c’è una parola, ci deve essere necessariamente qualcosa nella realtà che corrisponda ad essa. […] La condizione umana consiste quindi nel cercare un equilibrio tra la necessità dei segni, che grazie a un senso condiviso ci permettono di comunicare, e il bisogno di conoscere ciò che è reale; per troppa immaginazione simbolica, rischiamo di perdere il senso delle varie realtà, perfino di impazzire; se troppo poca, rischiamo di diventare disumani. » (da “Quel che resta della dignità umana” – la Repubblica, 30 settembre 2021)
Comunque la pensiamo, almeno su un punto bisognerà per forza convenire: va bene (almeno fino a un certo punto) immaginare, o perdersi dietro qualche “bagattella”, o distrarsi dietro qualche sciocchezza. Se però piano piano arriviamo a convincerci di essere davvero capaci di camminare a testa in giù… in questo caso sarebbe meglio rendersi conto il prima possibile che, in realtà, a muoversi è solo la ruota. E che il criceto siamo noi.