UNO. «Loro dormono. Cadono in un letargo perfetto. Può durare mesi, anni. Non sono in coma. Non hanno malattie, sono sani: dormono. La storia dei bambini e adolescenti rifugiati che, soprattutto in Svezia, da anni si disconnettono dal mondo — chiudono gli occhi, se ne vanno restando qui — è la realtà quando trionfa sulla fantasia: più commovente di una fiaba, più eloquente di una tragedia greca, la misteriosa sindrome dei bambini che si addormentano ci dice esattamente, senza bisogno di aggiungere altro, chi siamo.
Che mondo abbiamo preparato per loro, cosa pensiamo, come viviamo. Ne hanno scritto i più grandi giornali del mondo. Esistono documentari, uno, Sopraffatti dalla vita , è su Netflix. Lo scorso anno Tomek Kaczor, polacco, ha vinto il primo premio del World Press Photo nella sezione ritratti con l’immagine di Ewa, ragazza armena di 15 anni appena svegliata dal suo lungo sonno in un centro di accoglienza. Sono centinaia di bambini, tra 7 e 19 anni: a un segnale misterioso si suggeriscono a distanza la soluzione al dolore.
Il primo report, su una rivista scientifica, è uscito nel 2005. “Restano passivi, immobili, muti, incapaci di mangiare e bere, sono incontinenti. Non hanno reazioni al dolore fisico”. Un neurologo svedese, Karl Sallin, parla di psicogenesi culturale: la patologia si innesca quando il bambino interiorizza le regole dominanti della cultura in cui vive. Fuggiti dalla patria, non accolti nel Paese di arrivo. Non possono tornare indietro né andare avanti. La chiamano sindrome da rassegnazione, ma sembra piuttosto disapprovazione. C’è qualcosa di divino, nel sonno dei bambini rifugiati: uno sguardo che non ha bisogno di occhi per vedere. Sanno che le parole non servono. Ci parlano col silenzio. Ci giudicano.» (Concita De Gregorio, la Repubblica 5 maggio 2021)
DUE. «La comprensione è soltanto un caso particolare del malinteso»: lo sosteneva il linguista Antoine Culioli, rovesciando il senso comune che vorrebbe che il malinteso fosse un’eccezione. I social network sembrano confermare la sua intuizione e forse non del tutto per caso: qualcuno dice che sono stati progettati così, apposta per farci discutere, arrabbiare, litigare. Ma che fatica. […]
Per decodificare un testo abbiamo bisogno di un codice interpretativo, ma di codici interpretativi ce ne sono tanti quanti le persone che lo leggono. E ogni interpretazione produce un significato leggermente differente. Peggio ancora: quando ci rivolgiamo a un pubblico specifico, conosciamo pressappoco i codici con cui verrà interpretato il nostro discorso e sapremo ottimizzare l’efficacia della nostra comunicazione; ma su Internet è diverso. Perché come lungo un piano inclinato possiamo essere certi che la bottiglia contenente il nostro messaggio scivolerà altrove, in contesti imprevisti. […]
“Tu, che mi leggi, sei sicuro di intendere la mia lingua?” È la domanda posta dal narratore del celebre racconto di Jorge Luis Borges La biblioteca di Babele, che solleva il paradosso di un infinito numero di testi decifrabili in un infinito numero di lingue.
D’altronde ci aveva già avvertito Platone nel Fedone: l’invenzione della scrittura da parte del dio Teuth è contemporaneamente un farmaco e un veleno, perché facendo circolare i testi senza il loro estensore – in grado di spiegare e precisare – rischia di produrre interpretazioni aberranti. Con buona pace di Aristotele che fonderà la metafisica sull’idea che “ogni nome esprime un nome e uno solo”: beata ingenuità.
Probabilmente tendiamo a sottovalutare quanto sia complessa e stratificata l’operazione che ci porta a estrarre un significato da un testo. Le parole possono essere polisemiche, i registri retorici innumerevoli, gli impliciti e sottintesi sempre in agguato. Bisogna tenere conto dei testi e dei paratesti, inserire ogni stringa di testo nella sequenza delle puntate precedenti. E alla fine accettare che a ogni testo corrispondono un’infinità di interpretazioni possibili, chiedendosi semmai: com’è possibile che talvolta si abbia l’impressione di essere compresi? Probabilmente è questa la vera illusione. Possiamo al massimo sperare che per qualche coincidenza le nostre parole evochino in altri qualcosa di simile al nostro pensiero, e che questo muova in loro un comportamento che corrisponde alle intenzioni pragmatiche della nostra enunciazione: ridere, baciarci, portarci una zolletta di zucchero. […]
Il mondo nuovo assomiglia incredibilmente a quello antico. E le preoccupazioni sorte dal progresso tecnologico non sono poi dissimili da quelle che gli antichi ebrei avevano consegnato al mito della torre di Babele: gli uomini che prima parlavano una sola lingua d’un tratto cessano di capirsi e iniziano a parlare nel loro rispettivo dialetto. La Bibbia non lo racconta ma c’è da credere che prima di capire di avere a che fare con codici differenti gli uomini abbiano perso tempo a litigare a causa dei numerosi malintesi, magari per come la parola aramaica per salutare suonasse fin troppo simile all’organo genitale maschile in babilonese. L’orrore della polisemia aveva invaso il mondo, dopo la caduta degli uomini era seguita la caduta del linguaggio. (Raffaele Alberto Ventura – Domani, 4 maggio 2021)
TRE. «Come per tutti i raccontatori, il compito è quello di costruire un senso a qualcosa che senso non ha. Allora, ad esempio, questo meraviglioso universo che tu vedi, è però assolutamente privo di senso, così come le persone che lo abitano, no? – e tutto ciò è l’insieme degli elementi caotici e dispersi. Ciò che può creare un senso è il raccontatore, che mette insieme alcuni elementi di questo caos e trae fuori un filo, una storia, un racconto che ti interpreta tutto ciò che di per sé diversamente non è interpretabile; che è poi quello che facevano i greci con i loro miti, ed è quello che fanno tutti quelli che raccontano una storia. Scegliendo quegli elementi e trascurando gli altri, ti metto insieme qualche cosa che produce un racconto di narrativa per cui a te sembra di trovare una chiave interpretativa del mondo.» (Claudio Lolli in La sublime e inutile arte della parola di Piero Cannizzaro, 2002)