«Io sono un pittore estremamente tradizionale. Lavoro, come tutti gli artisti, per suscitare emozioni negli spettatori. Lavoro per far ridere o piangere la gente; sono un predicatore. Ho fatto libri, inventari, foto e film, ma è la stessa cosa. Non credo che vi siano differenze tra i media. Si ha un’idea e si cerca il modo migliore di esprimerla, il mezzo più accettabile in quel momento. Non credo che vi sia una forma privilegiata. Penso che i pittori abbiano sempre avuto più o meno le stesse cosa da dire, lo stesso desiderio di catturare la realtà, solo che lo esprimono ogni volta in un modo un po’ diverso e con mezzi un po’ diversi. Non è per il fatto che ci servirà del video o di altri trucchi che cambierà qualcosa». (da un’intervista del 1975 contenuta nel volume “Monuments à une personne inconnue: six questions à Christian Boltanski“)
Boltanski aveva subito inteso la lezione di Duchamp che pionieristicamente aveva fatto dell’immaginario della vetrina e dei contenitori museali un suo strumento e ciò che apparentemente non presentava nessun valore estetico sarebbe diventato un luogo da evocare continuamente nella pratica degli artisti nati dopo la Seconda Guerra Mondiale. Boltanski semplicemente capì quanto la vita degli artisti era in sé un valore simbolico da esibire e quanto le opere fossero diventate oggetti dal valore votivo, come l’artista spiegò tra il serio e il faceto nel 1988 sulle pagine del numero 128 di ArtPress:
«I Musei che, oggi, vogliono avere dei Mondrian somigliano moltissimo alle città del Medioevo che volevano avere le reliquie di un santo. Quando non riuscivano a possedere le ossa di un gran santo, s’accontentavano d’un santo locale, oppure ne inventavano uno. Sono rimasto veramente colpito quando i giapponesi hanno acquistato il Van Gogh: pensare che questo paese che fabbrica computer aveva bisogno di quel vecchio pezzo di tela come d’un oggetto magico; perché Van Gogh è uno dei grandi santi dell’Occidente!».
Nei suoi ultimi ultimi anni, il lavoro di Boltanski si è fatto in un certo senso sempre più etereo, la materia ha lasciato sempre più spazio al suono. Les Archives du coeur, iniziato nel 2008, è composto dalla registrazione di battiti cardiaci di essere umani, alcuni dei quali inevitabilmente già cessati man mano che il lavoro di archiviazione proseguiva.
Sempre il suono è protagonista di alcuni dei suoi ultimi e più poetici lavori. Animitas del 2014 è un video che testimonia un pezzo di land art sonoro, composto da centinaia di sottili elementi metallici sulla cui sommità sono poste altrettante campanelle che, mosse dal vento, producono una serena melodia e che simbolicamente per l’artista mettono in relazione la terra con le stelle. L’istallazione è stata realizzata e poi filmata in tre diverse ambientazioni: il deserto cileno di Atacama, una foresta in Giappone e tra le nevi del Canada. Chi ha avuto modo di osservarli ne ha apprezzato la leggerezza,la sensazione di armonia che quel concerto di voci provocano nell’ascoltatore, come se Boltanski avesse compreso alla fine della sua “impossibile” vita che oltre la storia, oltre i nomi, oltre i corpi, di questo siamo fatti: di aria, di musica. (da liminarivista.it, di Riccardo Conti)