Letteratura samizdat

UNO.  Azar Nafisi è una scrittrice iraniana residente negli Stati Uniti ed è l’autrice di “Leggere Lolita a Teheran”. Cittadina americana dal 2008, tiene seminari e parla dei suoi libri e dei libri degli altri. Azar Nafisi ha raccontato che un giorno a Seattle dopo uno di questi incontri un ragazzo iraniano le ha detto: “Quello che lei dice a proposito dei libri non serve a niente. La gente qui è diversa da noi. Vive in un altro mondo. Non ci tiene ai libri. Qui non è come in Iran, dove eravamo così matti da fotocopiare centinaia di pagine di Madame Bovary e Addio alle armi”. Quel ragazzo era stato imprigionato e frustato per 48 ore perché in auto aveva musicassette di contrabbando. Frustato per il bene dello Stato, ovviamente; frustato per il suo bene, frustato in nome del Bene. Qui è diverso, la gente non tiene ai libri, diceva il ragazzo.

DUE. «Martin Amis, una volta, aveva detto che soltanto gli scrittori che vivono sotto un totalitarismo “sanno di che pasta sono fatti”. Sebbene [Philip] Roth non abbia mai vissuto sotto un totalitarismo, costruì rapporti con uomini che lo hanno combattuto. Kundera optò per una vita solitaria, scrivendo in francese; Klíma e Vaculik continuarono a far circolare illegalmente i propri romanzi (spesso copiati a mano, o su macchine da scrivere improvvisate); Havel entrava e usciva di prigione. Roth restò in contatto con Klíma e Kundera e continuò a fare viaggi in Cecoslovacchia per tutti gli anni Settanta. “Ero seguito per la maggior parte del tempo da un agente in borghese… la mia camera d’albergo era spiata, così come il telefono”.

La sua ultima visita si concluse con un arresto da parte del StB: “Accadde nel 1977, mentre stavo andando a vedere una ridicola mostra di arte socialista. Fui arrestato dalla polizia. L’incidente fu clamoroso, e il giorno dopo dovetti lasciare il paese”. Le richieste di visto da parte di Roth nei successivi dodici anni furono respinte: riuscì a tornare a Praga soltanto nel febbraio del 1990. In quel contesto, contattò Klíma: parlarono a lungo di come la letteratura opera sotto un regime, del ruolo di “salvagente” che ha in comunità politiche libere o coercitive. Roth negò la cosiddetta “musa della censura”, le fantasie romantiche che agitavano gli scrittori del mondo libero: invidiavano i governi che prendevano sul serio la letteratura tanto da censurarla, e desideravano con ardore che i loro libri fossero sigillati dal samizdat.

Roth mise in guardia Klíma sui pericoli della cultura di massa, banale e commerciale dell’Europa ‘libera’. Le catene di un sistema autoritario sono ovvie, quelle di una società dominata dal libero mercato sono più infide e sottili: l’autore vive sotto la tirannia degli interessi monetari, del filisteismo, dell’opinione pubblica e del “buon gusto”. Roth conosceva bene le pressioni che doveva affrontare “l’uomo ricco di libertà”. “Hai combattuto per qualcosa da così tanti anni, qualcosa di cui hai bisogno come l’aria: ora ti dico che l’aria per cui hai combattuto è un po’ avvelenata”.» (di Jared Marcel Pollen – da pangea.news)

TRE. Nel suo magnifico romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere, pubblicato nel 1984, Milan Kundera descrive Franz, un personaggio importante del libro, come “incarnazione dell’Europa: la madre veniva da Vienna, il padre era francese e lui è svizzero”. Franz, dialogando, afferma che: «La cultura scompare nell’abbondanza della sovrapproduzione, nella valanga dei segni, nella follia della quantità. Ecco perché ti dico che un libro vietato nel tuo vecchio paese significa infinitamente di più dei miliardi di parole vomitati dalle nostre università.»

Comunque sia, una cosa è certa: «Cos’hanno in comune “Il dottor Zivago” di Boris Pasternak e “Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solzhenitsyn? Al giorno d’oggi questi due libri figurano nella lista delle venti opere letterarie più importanti del XX secolo. Pubblicate in milioni di copie, sono oggetto di studio nelle università dei cinque continenti. Ma i lettori sovietici degli anni Sessanta e Ottanta non trovarono questi romanzi in libreria, bensì tra le copie di volumi copiati a macchina con la carta carbone e fatti circolare di mano in mano. Un sistema di diffusione clandestina di libri che passò alla storia con il nome di samizdat.» (Ekaterina Aleeva – da rbt.com)

«Il sostantivo samizdat nasce dall’unione di due radici: sam (in russo “da solo”) e izdat, parola che invece rimanda al concetto di pubblicazione, ritrovabile in verbi come izdavat’  (“pubblicare”) e in sostantivi come izdatel’stvo (“casa editrice”), e fa riferimento alla autopubblicazione di testi e la loro divulgazione al di fuori dalla filiera editoriale ufficiale mediante copiatura e diffusione segrete e a spese proprie. In epoca sovietica il samizdat rappresentò la principale modalità di diffusione di opere che non avevano passato il rigidissimo vaglio della censura e che quindi potevano circolare soltanto clandestinamente dopo essere state auto pubblicate dagli stessi autori o da chi li sosteneva.

L’introduzione della parola samizdat, almeno in una prima variante, viene ricondotta al poeta moscovita Nikolaj Ivanovič Glazkov che nel 1944, non potendo pubblicare una propria raccolta di testi a causa del divieto imposto dalle autorità, ne realizzò egli stesso poche copie e le diffuse all’interno della sua cerchia di amici. Sulla copertina dei volumi, dove solitamente compariva l’indicazione della casa editrice, scrisse, parodiando le diciture ufficiali, samo-izdat o, secondo alcune versioni, samsebjaizdat (“pubblicato da sé”). L’espressione si diffuse poi tra altri autori, andando ad alimentare sempre più il fenomeno dell’autopubblicazione.

Il samizdat, nato come meccanismo di diffusione di testi proibiti, diventò con il tempo il principale strumento della “seconda cultura” all’interno dell’URSS, cioè di quella cultura che si sviluppava e viveva al di fuori dei limiti imposti dalla censura, ignorando del tutto le limitazioni imposte.

Sebbene nei decenni precedenti si fossero verificate situazioni simili per caratteristiche a quelle del samizdat, è solo in epoca sovietica che di questo fenomeno venne sviluppata una consapevolezza tale da portare anche alla creazione di un termine specifico per indicarlo. Le persone iniziarono a “scrivere per il samizdat” così come prima scrivevano “per il cassetto” (cioè sapendo che i testi sarebbero rimasti nascosti nelle scrivanie e non avrebbero mai visto la luce, almeno in modo ufficiale). A differenza di altri fenomeni simili, il samizdat risultò dunque una vera e propria istituzione socio-culturale e tale fenomeno interessò non soltanto opere in russo scritte da autori sovietici, ma anche testi stranieri proibiti in Urss, i quali potevano quindi essere diffusi solo attraverso questi canali non ufficiali.» (da russiantranslation.com)

QUATTRO. Per quanto invece ci riguarda direttamente: noi, oggi «Non teniamo ai libri perché per fortuna li respiriamo ancora liberamente, belli e brutti, capolavori e paccottiglie, leggiamo o non leggiamo quello che ci pare. Mescoliamo letteratura e intrattenimento, ed è una grande libertà e ricchezza anche poter scegliere fra un “romanzo amico” come quello di grande successo di Valerie Perrin (“Cambiare l’acqua ai fiori”), consolatorio, astuto e fornito di tutto come un Grand Hotel a 5 stelle (uso le parole di Walter Siti) e un libro che fa ingoiare anche una medicina amara, magari zuccherata per bene ai bordi, ma che ci dice qualcosa che non volevamo nemmeno sapere, qualcosa che fa male, qualcosa di ambiguo e che però, come tutto quello che è umano, ci riguarda anche oltre la nostra consapevolezza. Di solito la medicina amara, se si vuole parlare di utilità della letteratura (impossibile definire Lolita inutile, o Madame Bovary rinunciabile) è il contrario di qualcosa di edificante, che si possa sventolare come una bandiera per dire: ecco, qui c’è il Bene, leggete qui. Walter Siti tiene così tanto ai libri che ha scritto un saggio non in nome del Bene (il bene di leggere, il bene pedagogico, il bene che ti può offrire la letteratura), ma esplicitamente contro il Bene.» (Annalena Benini – il Foglio Quotidiano, 1 maggio 2021)

Fermiamo questo Bene che frusta per il bene dello Stato, fermiamo quel Bene che frusta per il “nostro” bene in nome del Bene. Da “noi” (oggi) è diverso, la gente non ci tiene, ai libri, come diceva quel ragazzo frustato per 48 ore. Ma non mancano – anzi non sono mai mancati – nemmeno da “noi” quelli che vorrebbero tornare a manganellarci per il Bene nostro e dello stato. Tutto può cambiare, tutto può ripetersi, ricordiamocelo sempre.

CINQUE. Com’è noto, infatti, le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni (e di menzogne, e di malafede, e di violenza…): «Quando, meno di un anno dopo la rivoluzione liberale, i leader bolscevichi rovesciarono il regime democratico di Kerenskij e inaugurarono il regime del terrore, la gran pare degli scrittori russi se ne andò all’estero; alcuni, ad esempio il poeta futurista Majakovskij, rimasero. […] È interessante riflettere su come non vi sia alcuna reale differenza tra ciò che voleva dalla letteratura un fascista occidentale e ciò che vogliono i bolscevichi. Lasciatemi citare: “La libertà dell’artista dovrebbe svilupparsi liberamente e senza pressioni. Una cosa, tuttavia, chiediamo: il riconoscimento del nostro credo”. Così parlava uno dei gerarchi nazisti, il dottor Rosenberg, ministro della Cultura nella Germania di Hitler. Altra citazione: “Ogni artista ha il diritto di creare liberamente; ma noi comunisti dobbiamo guidarlo secondo un piano”. Così parlava Lenin. Sono due citazioni testuali, e la loro somiglianza sarebbe parecchio divertente se il tutto non fosse così triste. […] Ho qui due esempi a caso. Per primo ecco un passo da Un cuore grande, un romanzo di Antonov pubblicato a puntate nel 1957:

«Ol’ga stava in silenzio. “Ah!” gridò Vladimir. “Perché non poi amarmi come ti amo io?”.

“Io amo la mia Patria” rispose lei.

“Anch’io!” esclamò lui.

“Ma c’è qualcosa che amo ancora di più” continuò Ol’ga, liberandosi dal suo abbraccio.

“E sarebbe…?” si interessò lui.

Ol’ga lo guardò con i suoi limpidi occhi azzurri e rispose senza indugio: “Il Partito”.» […] (Lettura tenuta da Vladimir Nabokov al Festival of the Arts, Cornell University il 10 aprile 1958)

A noi oggi viene da ridere, anche se in verità ci sarebbe da piangere. E il secondo esempio di Nabokov…? Lasciamo perdere: sarebbe divertente, se il tutto non fosse così triste. Meglio chiudere qui.

Il brano Modern Dance di Lou Reed è contenuto nell’album Ecstasy (2000)

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