…Fu la tua ora e non è finita. / Con quale agilità rimescolavi / materialismo storico e pauperismo evangelico, / pornografia e riscatto, nausea per l’odore / di trifola, il denaro che ti giungeva. / No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore / non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole…
(Eugenio Montale – “Lettera a Malvolio“)
Max Weber diceva che la cattedra non è fatta né per il profeta né per il demagogo. Davvero giusto. Però se avesse vissuto ai giorni nostri, Weber avrebbe probabilmente aggiunto che nemmeno la televisione lo è. Gran parte degli onnipresenti talk-shows televisivi italiani sembrano invece – al contrario – tagliati su misura proprio per loro. Avendo ormai accertato oltre ogni ragionevole dubbio questa triste verità, quando uno di essi dagli schermi avanza addirittura la pretesa di venderci una ulteriore, personale «analisi della complessità», immediatamente spuntano sensibilissime antenne anti-ciarlataneria.
E invece: «La complessità va di moda. In realtà, va di moda già da diverso tempo, ma la guerra in Ucraina ha dato l’abbrivio a un florilegio di lezioni sul tema. Si tratta, per lo più, di semplificazioni. La ragione è, anch’essa, piuttosto semplice: è impossibile sviscerare la complessità di qualsiasi fenomeno in un talk-show televisivo o negli articoli di giornale di complemento. Lo impediscono i tempi, il contesto e il pubblico.
I tempi, perché sono contingentati e quindi non funzionali a un discorso complesso. Il contesto, perché è essenzialmente quello di una controversia nella quale è più importante vincere l’avversario che analizzare un fenomeno in maniera ponderata. Il pubblico, perché non è recettivo a un discorso complesso come quello che sarebbe richiesto in questi casi. Non perché sia un pubblico necessariamente ignorante, ma perché non va in cerca di quel tipo di discorso guardando un talk-show o leggendo un articolo di giornale. Il contesto, insomma, non è comunicativo – non si vogliono comunicare informazioni, possibilmente verificate ed esaurienti – ma persuasivo, e l’obiettivo finale è persuadere non l’avversario, ma il pubblico.» (Giovanni Damele, il Foglio Quotidiano, 8 aprile 2022)
Cosa facciamo se incontriamo per strada un uomo che picchia una donna…? ci appartiamo prudentemente per interrogarci sulle cause, oppure interveniamo per aiutare la donna e magari chiamare i carabinieri? Sappiamo tutti che i fatti si interpretano. Ma esistono dei fatti incontrovertibili che si possono anche interpretare, ma non negare. Possiamo naturalmente riflettere sulle cause, prossime o remote, a patto che ciò non diventi un alibi per evitare le decisioni. A volte invocare la complessità significa rivendicare implicitamente il proprio agnosticismo, mentre su certi temi è davvero ovvio che non possiamo dirci indifferenti o equidistanti. Invocare la complessità in questi casi è ipocrisia.
«… il problema è quando prevale la voglia di indossare una maschera, di recitare un ruolo in un dibattito viziato da numerose fallacie. Quella più vistosa è l’inversione dell’onere della prova. Non so cosa sia successo con quel missile a Kramatorsk, ma è paradossale che si chieda agli ucraini di provare che non sono stati loro».
È figlia del complottismo dilagante?
«Mi sembra una chiave corretta. La questione si può esemplificare come segue. Se io sono sul balcone, vengo colpito da un proiettile e vado a fare denuncia non è che il carabiniere mi chiede: “Provami prima di non esserti ferito da solo”». (intervista di Concetto Vecchio a Gianrico Carofiglio – la Repubblica, 8 aprile 2022)
Qualche “analista della complessità” sostiene che «La bomba caduta sulla stazione di Kramatorsk piena di comuni cittadini, fra cui tanti bambini che tentavano di scappare via da città distrutte e bruciate, l’hanno messa gli ucraini per poi incolpare l’esercito russo. E qui viene da ridere, se non ci facesse piangere per i tanti cittadini uccisi barbaramente mentre correvano con i loro fagotti una volta perse le case. Ecco, se io fossi un comico, farei ridere il mondo intero con la caricatura di queste teorie: dunque: gli ucraini nazisti, con a capo un ebreo nazista, si sono invasi da soli, si sono buttate le bombe da soli, si sono bruciati le case, hanno torturato, terrorizzato, derubato, cacciato i propri cittadini, inventandosi teatralmente le scene di morte e predazione, per dare la colpa ai russi. Ma davvero il popolo russo crede a queste fandonie?
Eppure ho saputo di molti figli emigrati che hanno cercato di convincere i loro padri e non ci sono riusciti. «Sei una marionetta degli americani» è stata la risposta di questi padri rimasti in patria. Si è letto di una infermiera che a Kiev curava un soldato russo prigioniero che continuava a dire: «Vi dobbiamo uccidere tutti, perché siete nazisti e il nazismo è il nostro nemico». E qui capiamo quanto possa diventare potente la propaganda quando un Paese è privo di ogni dialettica informativa, quando c’è una sola voce che tuona dentro le case attraverso una televisione assoggettata, una radio asservita. Un Paese in cui i giornalisti vengono avvelenati, e chi protesta, anche solo per chiedere la pace, viene buttato in prigione con la minaccia di cinque anni di galera [in realtà quindici – N.d.R.] si può considerare un Paese che racconta la verità?» (Dacia Maraini – Corriere della Sera, 12 aprile 2022)
Eugenio Montale ha scritto la sua Lettera a Malvolio nel 1972. Il testo focalizza uno dei temi ricorrenti nella sua ultima produzione: la difesa della propria intransigenza etica, prendendo le distanze da ogni posa letteraria, da ogni ideologia che abbia la pretesa di assurgere a verità, restando alieno da atteggiamenti protagonistici. Insomma il contrario dell’intellettuale votato al compromesso per vanità e stupidità; sempre pronto, nel predominio del rumore, a utilizzare parole vuote e formule esteriori, pur di continuare a guardarsi allo specchio, convinto che se il suo naso è storto la colpa sia dello specchio.