È quasi Natale. Come ogni anno, in questo periodo ogni bambino avrà occasione di vedere o rivedere tanti bellissimi cartoni animati, che sono giustamente privilegiati nelle programmazioni televisive e cinematografiche. E non mancherà certo la riproposizione dei numerosi classici Disney, di quei cartoon che hanno fatto sognare intere generazioni di spettatori – compresa la nostra – apparentemente senza segnare o deviare in maniera indelebile o incorreggibile la coscienza civile dei bambini, dei ragazzi, delle persone che eravamo, nonché degli adulti (donne e uomini, bruni o biondi, alti o bassi, belli o brutti, buoni o cattivi) che in qualche modo siamo nel frattempo diventati. Tendiamo poi ad escludere che i brutti e i cattivi lo siano diventati per colpa di Walt Disney. Ma i tempi cambiano.
Al giorno d’oggi, ad esempio, se cercate “Gli Aristogatti” su Disney+, vi appare una scritta che comincia così: «Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone e di culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono oggi». Poi va avanti – in stile un po’ sovietico – dicendo che, nonostante questo, ve lo faranno vedere lo stesso. Bontà loro. «Del resto, se togliessero tutti i film che hanno rappresentato gli stereotipi del loro tempo, non andreste più su Disney+ perché non ci sarebbe nulla da guardare se non il film dell’anno in corso.» (Giovanni Maddalena – il Foglio Quotidiano)
Però noi li (ri)guardiamo ugualmente, e con molto piacere.
Peter Pan, Dumbo, Lilli e il Vagabondo, contengono scene decisamente razziste per gli standard odierni. L’introduzione Disney+ continua: «… Piuttosto che rimuovere il contenuto, vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, impararne una lezione e avviare una conversazione, per creare insieme un futuro più inclusivo».
Leggiamo un commento: «Girate con disinvoltura in anni in cui la sensibilità collettiva sul tema era meno sfaccettata, alcune scene dei film Disney sono ora sempre più difficili da mostrare ai bambini senza spiegazioni. Specie nella versione originale. È il caso, per esempio, di Dumbo (1941): all’occhio e all’orecchio di uno spettatore americano i corvi che volano con lui, neri e dall’accento grottesco, suonano come caricature di neri da piantagione. Cantano «lavoriamo come schiavi»; uno si chiama Jim Crow, come le famigerate leggi Jim Crow sulla segregazione razziale (e «crow» vuol dire corvo).
Allo stesso modo, i «pellerossa» che incontra Peter Pan nel classico del 1953 sono una caricatura dei nativi americani — e il termine originale, «redskins», suona oggi inaccettabile — che gli stessi bambini dell’Isola che non c’è chiamano «selvaggi», organizzando battute di caccia all’indiano. Il libro della giungla (1962) è tratto dal classico di Kipling che già di per sé era colonialista; l’orangotango Re Luigi, che danza intorno a Mowgli lo swing (stile Dixieland) «Voglio essere come te», è doppiato con una voce che ricorda quelle delle «blackface» dei vecchi film in bianco e nero, così come le sue movenze. Poi ci sono i cinesi. Anzi, i siamesi: in Lilli e il vagabondo (1955) e Gli Aristogatti (1970), compaiono perfidi gatti siamesi dagli occhi a mandorla, uguali fra loro come gli orientali nel cliché razzista degli occidentali, perfidi i due di Lilli e il vagabondo e caricaturale, inseparabile dalle sue bacchette con le quali persino suona, Shun Gon, il micio-pianista degli Aristogatti. E infine il canile di Lilli e il Vagabondo pullula di cani-cliché, che parlano americano con accenti stranieri da barzelletta: Pedro il chihuahua messicano, Boris il levriero russo.» (Irene Soave – Corriere della Sera)
La questione ovviamente non riguarda solo i cartoni animati, ma anche per esempio vecchi film come Via col vento. Infatti nel giugno scorso le vicende di Rossella O’Hara nel film di Victor Fleming datato 1939 sono tornate negli streaming del canale via cavo Hbo, negli Usa, ma corredate di un disclaimer: perché il film, spiega il lungo avviso, «nega gli orrori dello schiavismo».
Ad essere pignoli, riguarda poi anche Vasco Rossi; il quale nel 1980 pubblicava quello che sarebbe diventato il disco spartiacque della sua carriera Colpa d’Alfredo. Tra l’altro, il 27 novembre scorso è uscito per la serie celebrativa R>PLAY (dedicata agli album in studio del Komandante) una edizione rimasterizzata di questo importante disco.
«Santino aveva una marcia in più, in tutti i sensi: a Modena cuccava sempre le migliori. Compresa la ragazza che aveva accettato la corte di Vasco, dj allo “Snoopy” e dragatore di fine serata in quegli anni 70. Solo che quella volta Rossi indugiò con l’amico Alfredo giocando a Space Invaders. La ragazza sparì nella notte con Santino. L’indomani il beffato rievocò lo smacco con il fido Massimo Riva (l’iconico chitarrista dei tempi ruggenti) sputando una battuta intinta nel veleno della trivialità: “È andata a casa con il negro, la troia!”. Che divenne il centro incandescente della canzone Colpa d’alfredo. RAZZISMO? Una sortita politicamente scorretta?» Chi può dirlo? Resta il fatto che ieri, 16 dicembre 2020, Vasco Rossi ha ricevuto dal sindaco Merola il Nettuno d’Oro, massima onorificenza della città.
Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi. E quindi?
Scrive Philip Roth: «La macchia umana è ispirato a uno sgradevole episodio accaduto al mio defunto amico Melvin Tumin, professore di sociologia a Princeton per un trentennio. Un giorno, mentre faceva l’appello nella sua classe di sociologia, Mel, che era molto schietto in tutte le cose, grandi e piccole, notò che due dei suoi studenti non avevano ancora parecipato a una sola lezione del suo corso, né avevano fornito alcuna spiegazione per la propria assenza, sebbene si fosse ormai a metà semestre.
Finito di fare l’appello, Mel chiese alla classe notizie di quei due studenti che non aveva ancora mai visto. “Qualcuno conosce queste due persone? Esistono o sono degli spettri [spooks]?” – la stessa domanda che Coleman Silk, il protagonista della Macchia umana, rivolge alla sua classe di lettere classiche dell’Athena College in Massachusetts.
Quasi immediatamente Mel fu convocato dalle autorità accademiche, che gli chiesero ragione dell’uso della parola spooks, poiché si dava il caso che entrambi gli studenti assenti fossero afroamericani, e che in un certo periodo in America la parola spooks venisse usata come epiteto spregiativo per i neri, un termine un po’ meno velenoso di nigger ma comunque intenzionalmente degradante. Seguì nei mesi successivi una caccia alle streghe, da cui il professor Tumin risultò innocente, ma solo dopo essere stato costretto a rilasciare lunghe deposizioni per difendersi dall’accusa di incitamento all’odio.» (da Perchè scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960- 2013 – Einaudi, 2018)
Ma per tornare ai nostri amati cartoni: «Ogni volta bisognerebbe stare a fare le pulci ai nostri antenati? E prenderne le distanze? Che bisogno c’è? Se studiamo la storia e la letteratura è proprio per acquisire il senso della distanza e dell’alterità. Se avessimo abbastanza fiducia nella cultura, non ci sarebbe nessun bisogno di bollini rossi. Ogni avvertenza ulteriore sarebbe superflua. Inoltre, anche la formula “stereotipi sbagliati” è pleonastica, visto che non c’è stereotipo giusto. Ieri come oggi: la condanna del passato come tempo “sbagliato” è essa stessa il risultato di uno stereotipo (e come tale sbagliato). Bisognerebbe inventarsi un bollino che segnali l’ottusità dell’ipocrisia.» (Paolo Di Stefano – Corriere della Sera, 18 ottobre 2020)
Riassumendo, sintetizzando e concludendo, si tratta sempre e soltanto di questo: della periodica quanto assurda ventata di idiozia politically correct (politicamente corretta) o della sua moderna declinazione denominata cancel culture (cultura della cancellazione) le quali – come indica Philip Roth nel suo romanzo – possono anche travolgere le persone. Non si tratta affatto di uno scherzo, tutt’altro. Stringi stringi, a qualcuno evidentemente tutto questo non dispiace affatto; anzi, fa gioco.