Quelli che… dipende, oh yeah

TRASFORMISMO

Il trasformismo viene così definito da Treccani.it: «Termine con cui la pubblicistica italiana definì la prassi politica, inaugurata da A. Depretis, consistente nel formare di volta in volta maggioranze parlamentari intorno a singole personalità e su programmi contingenti, superando le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra. Di tipo trasformistico fu considerata anche la concessione di favori alle consorterie locali in cambio del sostegno parlamentare praticata da F. Crispi e G. Giolitti.

Con riferimento alla politica contemporanea, il termine è stato assunto a significare, con tono spregiativo o comunque polemico e negativo, sia ogni azione spregiudicatamente intesa ad assicurarsi una maggioranza parlamentare o a rafforzare la propria parte, sia la prassi di ricorrere, invece che al corretto confronto parlamentare, a manovre di corridoio, a compromessi, a clientelismi, senza più alcuna coerenza ideologica con la linea del partito.»

OPPORTUNISMO

Un duplice e intrecciato esempio storico viene descritto da Stefania Auci nel suo “I leoni di Sicilia. La saga dei Florio“. Il 28 maggio 1860 i Mille di Garibaldi sono entrati a Palermo, dopo la rivolta della Gancia orchestrata da Francesco Crispi e accolti da liberatori. Interno giorno. Una stanza schermata da tende di broccato. Uno dei capi della rivolta è lì, con Vincenzo e Ignazio Florio:

«L’uomo si accende un sigaro, sventola piano il cerino per spegnerlo. I baffi ingialliti dal tabacco fremono di piacere nell’accogliere il tepore del fumo. Prende una boccata, scrolla la cenere in un piattino. A poca distanza, una pistola: è la stessa che ha usato per minacciare le guardie borboniche pochi giorni prima, quando ha capeggiato una delle colonne di picciotti garibaldini che hanno fatto irruzione in città. Fissa Vincenzo e ne legge i pensieri. «Do ut des. Lo immaginavo», dice infine. «Esattamente.» […]

«Voi, don Florio, siete una persona a dir poco curiosa. Prima avete noleggiato i vostri vapori ai Borbone per pattugliare la costa e ora siete qui a vendere le informazioni sul Banco Regio ai Savoia.» Muove le mani e la cenere del sigaro cade a terra, si sparpaglia sulle maioliche. «Non vi fa difetto l’opportunismo.» «Ora come ora, le mie navi sono state requisite dal vostro dittatore Garibaldi e non ne dispongo più. Quanto al resto, capirete che la mia posizione non mi permetteva di rifiutare nulla al sovrano. E voi, comunque, non avete cercato di contattarmi prima, come avete fatto con altri, l’anno scorso.» Un altro silenzio, stavolta fatto di sorpresa e diffidenza. «Ah, Palermo. Uno pensa che sappia mantenere i segreti, invece…»

«Bisogna sapere cosa chiedere e a chi», chiosa Vincenzo. I grandi baffi dell’uomo si muovono, svelano una smorfia di scherno appena accennata. «Voi e la vostra Casa, signore, avete la possibilità di rifiutare qualunque cosa a chiunque, se lo voleste. Avete avuto la privativa della posta, e si può dire che siate i monopolisti del trasporto per mare del regno, praticamente senza pagare tasse grazie agli sconti che vi ha concesso la Corona. Voi avreste potuto aiutare la rivolta di dodici anni fa, eppure vi tiraste indietro, ricordate? Io c’ero, lo sappiamo bene entrambi, non affannatevi a smentire. E sia, è acqua passata. Oggi mi parlate di affari e io di affari vi rispondo. Credo sia ciò che interessa entrambi.» […]

«I Florio non dimenticano chi li aiuta. Noi a Palermo possiamo contare su ciò che nessuno, Borbone o Savoia, ha. E voi sapete a cosa mi riferisco.» Gli tende la mano. L’uomo la stringe. E poi stringe la mano di Vincenzo. Non possono ancora sapere che quell’uomo, Francesco Crispi, ex rivoltoso, ex mazziniano, sospettato di un omicidio politico e, in futuro, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e ministro dell’Interno del Regno d’Italia, diventerà l’avvocato di Casa Florio. (Stefania Auci – I leoni di Sicilia. La saga dei Florio. Editrice Nord, 2019. pagg 404-5)

Verrebbe da citare il Mussolini del 1921: «Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici: conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari; legalitari e illegalitari a seconda delle circostanze.» In verità questa è una “strategia” che in Italia è sempre risultata vincente (vi risparmiamo la consueta citazione dal Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), essendo come noto la nostra memoria storica più somigliante a quella del pesce rosso  che a quella dell’elefante. Ma non solo in Italia; mal comune mezzo gaudio? Mah.

IL DILEMMA SOCIALE

«The Social Dilemma, film Netflix diretto da Jeff Orlowski, è un documentario con elementi di finzione il cui obiettivo è quello di denunciare il ruolo dei social nel vivere contemporaneo e la loro ambigua applicazione. 

Il docudrama intreccia due filoni principali: il primo è la narrazione filmica di una tipica famiglia americana e degli effetti che l’abuso della tecnologia produce sulle nuove generazioni, il secondo è l’insieme delle interviste condotte a personalità note nel mondo della progettazione dei social e ben addentrate nel gioco dei subdoli meccanismi di programmazione.  

Il dilemma legato ai social ha un doppio livello di lettura, proprio perché non solo si riferisce alle delicate implicazioni etico-sociali dell’impiego della tecnologia e della sovrapproduzione di disinformazione, quanto anche di una meta-riflessione sui social media e sul modo in cui – come core business – mettono in atto una ‘manipolazione’ dell’individuo con lo scopo di generare profitti. Nulla di nuovo, certo, se non per il fatto che meccanismi vecchi di secoli ora sono plasmati in modo fluido sul singolo individuo. 

Tra coloro che firmano il film-manifesto, mettendosi in primo piano e rilasciando esplicite interviste, si contano: Tristan Harris, voce principale, dapprima consulente etico per Google, poi presidente e co-fondatore del Center For Human Technology;  Justin Rosenstein co-inventore del tasto “mi piace” di Facebook; Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, di cui ha reso famosa la stessa dicitura; Shoshana Zuboff, professore emerito della Harvard Business School. 

Nomi abbastanza eminenti che si sono messi in campo per condurre una ‘battaglia’ contro l’impiego distorto dei social network, e la loro connessione con giganti del tech (ma anche lobby) interessati a trarre profitto dalla quantità di ore in cui le persone vengono tenute incollate allo schermo. Senza però dimenticare come quegli stessi dati siano ormai alla base delle strategie di marketing anche di una moltitudine di piccole attività locali, aggiungiamo noi. […] (Aldo Pisano – anonimacinefili.it)

«Approfondendo il limite linguistico di The Social Dilemma, si schiude però, sotto la superficie, un panorama inquietante che nasconde quello che forse è il lato più oscuro del film di Orlowski. Alla base di The Social Dilemma c’è infatti un linguaggio che prima di essere problematico è paradossale. Nel criticare i meccanismi con cui le piattaforme entrano in contatto con il pubblico il film non si fa infatti scrupolo ad  implementare quelle stesse strategie nel proprio sistema. Se risulta già ambiguo che un progetto del genere sia nel catalogo Netflix, inquietante è il modo in cui il progetto si approccia all’engagement dell’utente, stigmatizzato nel documentario ma centrale nel suo storytelling, come dimostrano i segmenti di fiction che puntellano il progetto, utili a spezzare l’attenzione dello spettatore e sempre più pervasivi man a mano che la narrazione si approfondisce.» (Alessio Baronci – sentieriselvaggi.it)

Ciò che maggiormente colpisce nel docufilm in oggetto è che a condannare drasticamente i meccanismi social sono alcuni tra i principali e brillantissimi ideatori e attuatori degli stessi, con uno schematismo manicheo che non sembra tanto corrispondere alla formazione di una soluzione legata allo sviluppo della necessaria coscienza critica, quanto ad una cieca e rigida presa di posizione contro un nemico di cui si dichiara ora una spaventosa quanto ineluttabile invincibilità. Demonizzare o diventare schiavi del web non aiuta certo l’evoluzione della società.

BIANCO O NERO

Dal bianco al nero? Troppo comodo. Ed è pure sospetto il fatto che a produrlo sia «uno di quei signori: Netflix, una delle aziende FAANGM (acronimo delle aziende digitali a maggior capitalizzazione di mercato – Facebook Amazon Apple Netflix Google Microsoft). Davanti alla macchina di presa scorrono le confessioni di alcuni degli stessi protagonisti che hanno creato il mondo dei social negli ultimi quindici anni. […]

E allora? E allora non si tratta di ragionare come i FAANGM amano farci fare: bianco e nero, like o dislike. La realtà è più complessa. E’ piena di bianchi e grigi, sembra dirci sin dal titolo The Social Dilemma. Il valore oggettivo di innovazioni dirompenti rischia di essere compromesso dalla manipolazione dei dati e da un impiego innaturale che le molteplici applicazioni introdotte in questi anni hanno permesso. Gli attacchi web durante le precedenti elezioni americane, le recenti vicende proprietarie del social cinese TikTok, oggetto di culto di ragazzi e teenager, nonché l’avvento dei deep fake e dell’intelligenza artificiale sono solo esempi del fatto che la tecnologia, sì anch’essa, va governata.

E noi? Solo attori passivi? Tutt’altro. Sta a noi studiare. Imparare, chiedere formazione, magari qualche bonus in meno e qualche lezione in più. Governare la tecnologia, dalle tattiche più operative (attivare i firewall di fronte a pericoli, cancellare abitualmente i cookie, leggere attentamente quando si dà ok all’impiego dei dati) alla formazione in scuole e in università per favorire il pensiero critico dei ragazzi e, diciamocelo, anche di noi adulti. Solo 8 italiani su 100 sono impegnati in apprendimento permanente, contro i 34 svedesi su 100.

Sciogliere il Social dilemma con il sapere, ecco l’invito che sembra di intravvedere nel docufilm. Siamo ancora all’alba dell’impiego del web e ci vorranno parecchi anni per metabolizzare il suo violento ingresso nella società: demonizzarlo o diventarne schiavi non aiuta certo l’evoluzione della società. Al pari della rivoluzione culinaria partita dalle Langhe più che di uno slow web servirebbe un “web aware”, un web consapevole.» (Daniele Manca e Gianmario Verona – Corriere della Sera, 3 ottobre 2020)

In altre parole: è meglio diffidare dei fanatici che di volta in volta si dichiarano inflessibili portatori di verità e valori assoluti; lo schema bianco o nero non funziona perché non si accorda alla realtà, ma solo alla paura del futuro e dell’inevitabile cambiamento. Infatti di solito i suoi sostenitori saltano alla prima occasione sul carro del vincitore del momento e dei vantaggi più immediati: un diffuso fenomeno sociale, scientificamente denominato “salto della quaglia”. Il dubbio, la disponibilità all’approfondimento e alla formazione continua di una di coscienza critica sempre vigile rimangono invece l’unica, anche se incerta, possibilità per uscire dall’impasse sempre in agguato. Lo sviluppo, la crescita e il cambiamento sono altra cosa dal trasformismo. Ma di trasformisti purtroppo siamo tutti circondati. Come ad esempio…

QUELLI CHE

Quelli che… Vasco è sempre stato il loro idolo e poi adesso sono proprio loro quelli lì oh yeah

Quelli che… son sempre stati antifascisti, ma simpatizzano per i nazisti di famiglia oh yeah

Quelli che… odiavano il coniuge da vivo e lo amano da quando è morto oh yeah

Quelli che…  sono marxisti in pubblico, ma egocentrici e narcisisti in privato oh yeah oh yeah…

Poi, siccome il mondo è bello perché è vario, abbiamo anche quelli che…

In testata: Renato Guttuso, Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, 1951– 1952, olio su tela, 318 x 520 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi – Il brano Quelli che… di Enzo Jannacci è contenuto nell’album omonimo (1975)

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