Scrivere, non trascrivere

Sabato 10 novembre scorso si è svolta a Torino una manifestazione che è stata definita “pro TAV” (o anche “SÌ TAV”): «La piazza è quella aulica tra Palazzo Reale e Palazzo Madama, nel cuore di Torino. Un luogo simbolico che nei secoli ha visto scorrere la storia della città, rievocata oggi da chi ha scelto piazza Castello per dire sì alla Torino-Lione. Oltre 30 mila persone, per gli organizzatori, 25 mila per la questura: un successo, al di là dei numeri, che alimenta il dibattito sulle grandi opere. E, alla filosofia della decrescita felice, oppone una visione di futuro incentrata sulla crescita e sullo sviluppo. 

“Torino scende in piazza per dire tanti sì – a partire da quello per la Tav – che sappiano interpretare i bisogni della gente e che riscrivano il futuro di una città e di una regione“, spiegano gli organizzatori. Un camion scoperto sarà il palco della manifestazione. Vi saliranno le sette donne del Comitato Sì, Torino va avanti, Mino Giachino, promotore del Sì Tav- Sì Lavoro, Gianmarco Moschella, studente di Economia, e Guglielmo Nappi, studente di Ingegneria dell’AutoVeicolo.»  (ansa.it)

il successivo 12 novembre, nel corso del programma di approfondimento Otto e mezzo (su LA7), la conduttrice Lilli Gruber ha intervistato Patrizia Ghiazza, una delle sette organizzatrici della manifestazione “SÌ TAV”. Patrizia Ghiazza, all’osservazione del giornalista Scanzi del Fatto Quotidiano, ha risposto così: «Ci chiedeva Scanzi se siamo a conoscenza degli elementi tecnici, ambientali e  delle relative competenze di carattere più tecnico. Io posso solo dire che non siamo, né io né le persone che hanno organizzato questa manifestazione, le persone competenti per poter entrare nel merito, in quanto si tratta ormai di leggi dello Stato ratificate nel 2012 e ratificate nel 2015 dallo Stato Italiano. Quindi qualcuno prima di noi ha deciso attraverso un’analisi di contenuti e di valori economici la bontà di questo progetto. Quindi quello che noi desideriamo sostenere è che si possa proseguire e che si vada avanti. Nel senso che ci sono due trattati ratificati a livello internazionale Italia-Francia firmati dai rispettivi Capi di Stato italiano e francese.»

Confesso che queste affermazioni mi hanno lasciato davvero stupefatto. Per non dire basito. Cercherò quindi di spiegare, prima di tutto a me stesso, il motivo di questo stupore.

Giuseppe Pontiggia ha tenuto un ciclo di venticinque Conversazioni sullo scrivere per il programma Dentro la sera di RAI-Radio Due tra maggio e luglio 1994. Belleville Editore ha poi pubblicato nel 2016 il volume della trascrizione comprensivo di CD audio. Nella Conversazione 2, Pontiggia dice:

«Las Casas, un gesuita geniale del Cinquecento (…) aveva sostenuto che il compito di ogni vera educazione è di liberarci di quella che abbiamo ricevuto. In effetti, se noi applichiamo questa intuizione alla esperienza dello scrivere, constatiamo di avere ricevuto dall’ambiente famigliare e sociale e soprattutto dalla scuola una serie di pregiudizi pericolosi, di pregiudizi fuorvianti rispetto a uno scrivere che punti all’efficacia, all’espressività, all’intensità. (…)

Uno è che lo scrivere sia trascrivere. Alle elementari si insegna, comprensibilmente, che per fare un tema bisogna riflettere a lungo, avere le idee chiare e poi trascrivere quello che si è pensato. Bene, può essere un procedimento pedagogico funzionale alle elementari, ma questo atteggiamento di fronte alla scrittura dovrebbe essere superato quando si passa a una maturazione ulteriore. Io penso che lo scrivere sia soprattutto inventare nel senso etimologico di invenire. Invenire in latino voleva dire trovare. «Inventare» è un frequentativo di invenire e vuol dire essenzialmente scoprire quello che non si sapeva di conoscere, trovare quello che non si sapeva esistesse.

Penso che una delle mete di un narratore sia di dar vita a un testo che alla fine ne sappia più di lui, un testo che rappresenti per lui una fonte di sorpresa, di curiosità, di conoscenza, che non lo deluda alla rilettura, ma anzi riveli significati nascosti che lui stesso non poteva prevedere. Un testo è riuscito se ne sa più dell’autore, e questo è confermato sia dalla nostra esperienza, sia dall’esperienza storica. (…) l’aspetto idealmente e speculativamente più affascinante dello scrivere – un fascino pagato a duro prezzo – è che la conoscenza si realizza durante il percorso, attraverso il percorso. È un viaggio nell’ignoto. È un’avventura di cui non si sa mai l’esito, ma quando l’esito è felice ripaga degli sforzi che si sono compiuti per raggiungerlo»

Nella Conversazione 7 poi aggiunge che: « imparare a scrivere vuol dire anche imparare a leggere; e, se uno vuole impadronirsi dello strumento  della scrittura, deve – non può che – imparare a leggere con una particolare concentrazione, con un’attenzione, direi millimetrica, al linguaggio.» (Giuseppe Pontiggia: Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere – Belleville Editore, 2016)

Mario Vargas Llosa ha scritto: «Viviamo in un’epoca di specialisti. Il livello di conoscenza è aumentato e si è talmente diversificato che è impossibile riuscire ad avere la padronanza di diversi gradi di conoscenza. La nostra epoca ha creato gli specialisti, individui che sanno molto di un tema ma ignorano tutto il resto. Senza la letteratura, questa realtà si comporrebbe di individui solitari, incapaci di comunicare a causa della loro stessa specializzazione, capaci di confrontarsi soltanto con altri specialisti del proprio settore. Le discipline umanistiche, ma soprattutto la letteratura, ci ricordano quei denominatori comuni che ci astraggono dalla nostra specializzazione e ci fanno sentire parte di una comunità. (…)

Sono convinto che lo spirito critico sia fondamentale per il progresso della società. La civiltà si impoverirebbe molto se la letteratura sparisse o se diventasse un puro divertimento, uno svago passeggero e superficiale. La letteratura, senza dubbio, ci seduce, ci diverte, è un sistema enormemente ricco di distrazioni. Tuttavia, può anche spaventare, poiché suscita in noi il pensiero che il mondo non riesca a soddisfare tutti i nostri desideri. Se lo spirito critico scomparisse, probabilmente il mondo più avanzato, quello scientifico e tecnologico, diventerebbe un mondo di automi, di robot, e quegli incubi che la letteratura è stata capace di inventare, per esempio quelli di Zamjatin o Orwell, potrebbero concretizzarsi. Per tutte queste ragioni, credo che sia importante difendere il romanzo dalle minacce che incombono su di esso.

Curiosamente i pericoli oggi giorno non sono rappresentati dai sistemi della censura, ovvero da quelle ideologie o sistemi autoritari che vorrebbero controllare interamente la vita umana. Viviamo un’epoca in cui, probabilmente, non si è mai letto così tanto. Tuttavia, questo è un tempo in cui la letteratura ha sperimentato una trasformazione: ci distrae, ci addormenta, ci fa sprofondare in uno stato di sottomissione rispetto all’idea del mondo così com’è. Ed emergiamo dalla letteratura come alleviati e soggiogati da quella realtà che, invece, la vecchia letteratura ci esortava a mettere in discussione. Viviamo in un mondo in cui la cultura aspira all’intrattenimento. (…)

Mi rattrista anche immaginare un’umanità che smette di sognare poiché è stata convinta che il mondo in cui vive è perfetto e che ciò che ci circonda è sufficiente per soddisfare le nostre aspettative e realizzare i nostri sogni. Se questo dovesse succedere, tutto si esaurirebbe dove la storia ha avuto inizio: in un mondo senza libertà, interamente manipolato, non dalla paura ma da quei sistemi che hanno pensato che smettere di sognare qualcosa di diverso fosse un buon modo di condurre la vita. Non lo credo, non lo desidero e spero che i giovani siano capaci di capire la straordinaria importanza che ha, non solo per la vita degli individui ma anche per le società, la buona letteratura.» (Lectio magistralis di Mario Vargas Llosa– da Robinson 11 novembre 2018))

Nella Necessaria premessa di metodo del suo Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi 2018), Michela Murgia scrive: «In questo preciso momento storico abbiamo infatti a disposizione un’esuberanza di strumenti di controllo delle masse che nessun fascismo del secolo scorso ha avuto mai e questo si permette di sperimentare qualcosa di inedito: sorgere dal cuore di un sistema democratico pluridecennale e dominarlo senza mai dover ricorrere a un’azione militare interna o esterna. Manipolando gli strumenti democratici si può rendere fascista un intero paese senza nemmeno mai pronunciare la parola “fascista”, che comunque un po’ di ostilità potrebbe sollevarla anche in una democrazia scolorita, ma facendo in modo che il linguaggio fascista sia accettato socialmente in tutti i discorsi, buono per tutti i temi, come fosse una scatola senza etichette – né di destra né di sinistra – che pu passare di mano in mano senza avere a che fare direttamente con il suo contenuto. (…)

Quelle che seguono sono quindi istruzioni di metodo e in particolare istruzioni di linguaggio, l’infrastruttura culturale più manipolabile che abbiamo. Perché mai uno dovrebbe rovesciare le istituzioni se per ottenere il controllo gli basta cambiare di segno a una parola e metterla sulla bocca di tutti? Le parole generano comportamenti e chi controlla le parole controlla i comportamenti. È da lì, dai nomi che diamo alle cose da come le raccontiamo che il fascismo pi affrontare la sfida di tornare contemporaneo. Se riusciamo a convincere un democratico al giorno a usare una parola che gli abbiamo dato noi, quella sfida possiamo vincerla. (…)

Il popolo con un leader sarà litigioso, pretenderà di essere ascoltato, di discutere le decisioni che non gli piacciono, cercherà di far mancare il consenso, sarà irrispettoso dell’autorità, scenderà in piazza e si lamenterà, non sarà grato né ubbidiente. Il popolo che ha invocato il capo è invece fiducioso e si affida, riconosce la maggiore visione di chi prende le decisioni, non mette di continuo i bastoni fra le ruote e se scende in piazza è per dare sostegno e applaudire chi ha il gravoso e generoso compito di comandare. (…)

Le persone comuni, che in democrazia sono costrette a interessarsi, informarsi e decidere, col fascismo vivranno invece in pace, si occuperanno dei fatti propri e delegheranno volentieri al capo tutto il resto. Per questo, far loro capire nei dettagli quel che sta accadendo è una perdita di tempo: è sufficiente dire le cose necessarie e permettergli di affidarsi a chi sta decidendo. Non serve nemmeno che quello che si trasmette sia sempre vero, perché la verità in sé non esiste: è un dato politico, non un dato di realtà, e quindi chi governa la politica governa anche la realtà.(…)

A questo punto si potrebbe pensare che il fascismo sui social media debba comunicare attraverso messaggi semplici, ma sarebbe un grosso errore, peraltro uno dei preferiti dai democratici. La complessità non si deve semplificare, si deve banalizzare. Semplificare, oltre a essere complicatissimo, significa togliere il superfluo e tenere l’essenziale, ma è proprio il superfluo che genera l’utile rumore di fondo che rende tutte le voci uguali e neutralizza il maledetto dissenso.»

Vorrei ricordare alle sette “candide e ingenue” organizzatrici della manifestazione di Torino che nel mondo reale non sempre chi detiene il potere decisionale possiede l’innato dono della sincerità e dell’innocenza. Per fare un “piccolo” esempio, ricorderanno senz’altro  come Bush presentò la guerra in Iraq al popolo americano, e Colin Powell alle Nazioni Unite: Saddam – dissero – è il Male, ma quello che lo rende pericoloso, e rende necessaria una guerra preventiva, sono le sue “Armi di Distruzione di Massa ” . È stato poi candidamente ammesso che era una bugia (sostenuta in Europa anche da Blair e compagnia), un bieco pretesto per coprire i reali interessi di parte. Bugie  che la maggioranza dei media ha poi trascritto acriticamente – tali e quali – per molto tempo a venire. Oppure un fatto più recente: quando le agenzie americane di intelligence dichiararono che Putin aveva interferito nelle elezioni del 2016, Trump ha detto che Putin gli aveva detto di non averlo fatto. Tanto ci deve bastare, a suo parere. E si potrebbe continuare all’infinito.

Gentile signora Ghiazza: sbaglierò, ma in tutta sincerità rimane l’impressione che la vostra manifestazione non abbia scritto una pagina nuova. La sensazione è che con essa voi abbiate piuttosto trascritto un tema sulle solite leziose e banali, immaginifiche ma fatue verità che ci insegnavano alle elementari. Ammesso che siano verità. È un procedimento pedagogico giusto e funzionale allo scopo per i bambini delle elementari; ma le scuole elementari finiscono presto. Non tutti gradiscono venire trattati anche dopo come alunni con tanto di fiocco e grembiulino. Essere adulti e maturi, informati e responsabili è certo più faticoso (“È un viaggio nell’ignoto. È un’avventura di cui non si sa mai l’esito”) e può costare molto caro prendere liberamente posizioni coerenti alla propria coscienza e alla dignità personale. Tuttavia ciò è sempre necessario, nell’interesse di tutti i cittadini, e non solo di una ristretta minoranza composta dai soliti decisionisti, tanto allineati quanto privilegiati. Come diceva Pontiggia, “imparare a scrivere vuol dire anche imparare a leggere”.

In testata: Leonid Pasternak: The Throes of Creation  

 

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