Introverso ed estroverso sono parole che tutti usiamo comunemente nel momento in cui siamo chiamati a descrivere le caratteristiche di una persona. Come spesso accade con i termini entrati nell’uso comune, se ne ignora l’origine esatta. In realtà, “estroverso” e “introverso” indicano qualcosa di più del semplice giudizio dato su una persona. Si tratta, sostanzialmente, di due dei tipi psicologici, ossia strutture di personalità, teorizzati per la prima volta dallo psichiatra svizzero Carl Jung (1875-1961), insieme a Sigmund Freud.
Jung li cita per la prima volta nel volume “I Tipi psicologici”, dove illustra l’esito di vent’anni di ricerche sulle specificità che compongono il carattere individuale. Quindi, qualcosa che va ben oltre il significato comune attribuito alle suddette parole, perché riguardano un insieme di caratteristiche e modi di essere peculiari per alcune persone. Secondo Jung i due termini non riguardano una valutazione sulla persona, ma servono per distinguere due diversi modi di rapportarsi al mondo esterno.
Dunque, l’estroverso ha un rapporto positivo con l’ambiente esterno: lo osserva, studia tutte le circostanze e cerca di adattarsi ad esse il più possibile. La persona estroversa cerca l’approvazione altrui e tende a esprimere giudizi non troppo diversi da quelli del gruppo. L’introverso, invece, tende a rimanere distante dal mondo esterno, perché è più attratto dal suo mondo interiore. A differenza dell’estroverso, le sue energie non sono rivolte all’esterno, ma si concentrano sulla dimensione individuale. Più che con fatti e parole, la dimensione preferita dall’estroverso, si sente a suo agio con emozioni e pensieri. Ama la solitudine, ha un atteggiamento schivo e tende a essere diffidente e pessimista.
(da stateofmind.it)
All’inizio fu dunque Carl Gustav Jung, che con la sua famosa opera Tipi psicologici (Psychologische Typen) pubblicata nel 1921, propose la nota schematizzazione, da lui stesso successivamente riassunta così: «Ci sono, anzitutto, due tipi di psicologia umana. La funzione principale dell’uno è il “sentire”, quella dell’altro il “pensare”. L’uno si immedesima nell’oggetto, l’altro vi pensa sopra. L’uno si adatta all’ambiente secondo l’emozione e solo successivamente riflette, l’altro si adatta tramite una preliminare comprensione secondo il pensiero. Colui che si immedesima esce in certo qual modo da sé stesso verso l’oggetto, l’altro si ritrae in certo qual modo dall’oggetto o si arresta di fronte a esso e ci pensa su. Il primo si chiama tipo “estroverso”, perché in un certo senso si volge all’esterno verso l’oggetto; il secondo si chiama tipo “introverso”, perché in un certo senso si distoglie dall’oggetto, si ritira in sé stesso e riflette sull’oggetto.» (da Psicologia dell’inconscio – Bollati Boringhieri)
È un fatto noto che la cultura occidentale contemporanea non considera in modo neutro nessuna caratteristica della personalità; che «i creatori della nostra cultura» hanno spesso «il potere di dettare la realtà»; che spesso essi sono prepotenti, autoritari ed arroganti. I Weinstein e i Trump (tanto per non far nomi…) impongono ideali “estroversi” di comportamento quali biglietti di ingresso, accettazione e “promozione in società“. Come ha scritto Elaine Aron: «I film, le pubblicità, la configurazione degli spazi pubblici, tutto ci dice che dovremmo essere forti come Terminator, stoici come Clint Eastwood o estroversi come Goldie Hawn. Dovrebbero piacerci le luci brillanti, il rumore, le comitive di allegri amici al bar. E, se ci sentissimo invece sensibili e stressati, dovremmo prendere un tranquillante.»
Bocciati a prescindere, quindi, molti tra i più grandi artisti e poeti dell’epoca moderna. Che ci sta a fare ad esempio Rainer Maria Rilke, uno che si permette di scrivere: «La maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.»?
Rainer Maria Rilke, un grandissimo poeta che osa perfino chiedere: «…che sarebbe infatti (domandatevi) una solitudine senza grandezza; c’è solo una solitudine, e quella è grande e non è facile a portare e a quasi tutti giungono le ore in cui la permuterebbero volentieri con qualche comunione per quanto triviale e a buon mercato, con l’apparenza di un minimo accordo col primo capitato, col più indegno… Ma sono forse quelle le ore in cui la solitudine cresce; ché la sua crescita è dolorosa come la crescita dei fanciulli e triste come l’inizio delle primavere. Ma questo non vi deve sviare. Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno, — questo si deve poter raggiungere. Essere soli come si era soli da bambini, quando gli adulti andavano attorno, impigliati in cose che sembravano importanti e grandi, perché i grandi apparivano così affaccendati e nulla si comprendeva del loro agire.
E quando un giorno si scopre che le loro occupazioni sono miserabili, le loro professioni irrigidite e non più legate alla vita, perché non continuare a osservarle come cosa estranea, dalla profondità del proprio mondo, dalla vastità della propria solitudine, che è anche lavoro e grado e professione? Perché voler mutare la sapiente incomprensione del bambino con la difesa e il disprezzo, poi che l’incomprensione è solitudine, ma la difesa e il disprezzo partecipazione da quello da cui ci si vuole separare con questi mezzi. (Rainer Maria Rilke: Lettere a un giovane poeta. Adelphi Edizioni, 1980)
Un pesce fuor d’acqua, ecco cosa sarebbe…
Ma quando è successo? Quand’è che c’è stata questa radicale trasformazione della sensibilità collettiva? A tal proposito, Susan Cain propone un parallelismo tra questa svolta negativa e la “carriera” di Dale Carnagie, autore di Come trattare gli altri e farseli amici (in inglese How to win friends and influence people). L’opera, che ha venduto oltre quindici milioni di copie in tutto il mondo ed è tuttora popolare, è uno dei primi best seller nella storia dei libri sullo sviluppo personale:
«Il percorso di Carnagie rispecchia un’evoluzione culturale che raggiunge la dimensione di massa agli inizi del Novecento, cambiando per sempre ciò che siamo e chi ammiriamo, come ci comportiamo in un colloquio di lavoro, cosa cerchiamo in un dipendente, come corteggiamo il partner e alleviamo i figli. Prendendo a prestito due espressioni coniate dallo storico Warren Susman, possiamo dire che l’America passa in quegli anni da una “cultura del carattere” a una “cultura della personalità“, scoperchiando un vaso di Pandora di ansie personali dalle quali non avremmo più avuto scampo. Nella cultura del carattere, l’ideale di sé era improntato alla serietà, alla disciplina, all’onore. Ciò che contava non era tanto l’impressione che vi dava in pubblico quanto i comportamenti privati. Il termine “personalità” non è esistito in inglese fino al Settecento e l’idea di “avere una buona personalità” non si diffonderà che due secoli più tardi.
Abbracciando la cultura della personalità, gli americani cominciano invece a focalizzarsi sull’immagine che trasmettono agli altri. Si lasciano affascinare da persone esuberanti e spassose. “Il ruolo sociale richiesto a tutti nella nuova cultura della personalità era quello dell’attore”, per citare un famoso passaggio di Susman. Ogni americano doveva diventare un’istrione. […] Susman ha contato le ricorrenze delle parole più frequenti nei manuali di inizio Novecento e le ha confrontate con le guide del secolo precedente. Queste ultime, espressione della cultura del carattere, davano risalto ad attributi che chiunque avrebbe potuto migliorare con l’impegno: senso civico, dovere, lavoro, generosità, onore, reputazione, moralità, buone maniere, onestà.
Di contro, le guide di primo novecento nate dalla cultura personalità celebravano qualità che – per quanto Dale Carnagie la facesse facile – erano ben più complesse da raggiungere. O le possedevi, o non c’era niente da fare: magnetico, affascinante, magnifica, attraente, luminosa, dominante, deciso, energico. Non è un caso che negli anni venti e trenta gli americani perdano la testa per le stelle del cinema. Chi meglio di un idolo della celluloide poteva rappresentare un modello di carisma e magnetismo? […]
Lasciando il campus della Harvard Business School mi fermo davanti a una bacheca nell’atrio della biblioteca Baker. Vi trovo esposte alcune vignette pubblicate sul Wall Street Journa. Una di esse raffigura un manager che fissa sconsolato il grafico con i profitti aziendali in calo vertiginoso. “Colpa di Fradkin,” dice a un collega. “Manca completamente di senso degli affari, ma ha grandissime doti di leadership, e quindi tutti lo seguono lungo la strada verso la rovina.” (Susan Cain: Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare – Bompiani, 2018)
Questa impostazione viene promossa anche dal sistema dell’istruzione: «Per il successo scolastico dei ragazzi non sono decisivi una silenziosa conoscenza del mondo o una stesura di un sistema dall’argomentazione cristallina, ma gli interventi spontanei e le presentazioni efficaci. Tutto questo va a favore dei ragazzi con buone capacità espositive. Chi invece ha come punti di forza la concentrazione e la capacità di fare collegamenti che richiedono più riflessione resta muto di fronte alla classe. Anche se gli insegnanti sono formati per saper riconoscere questi comportamenti e stimolare anche i caratteri più introversi, non sono totalmente immuni dal cosiddetto halo effect, errore di percezione tipico della psicologia umana che prende il nome dall’aureola dei santi (in inglese halo). Inn base all’halo effect una prima impressione su una persona ci porta a desumere anche altre caratteristiche: dall’eloquenza, per esempio, deduciamo la conoscenza.
Su internet si trovano tonnellate di consigli su come sfruttare queste debolezze della pedagogia. Per esempio sul portale Sofatour si legge: “Che fare quando non hai idea dell’argomento della lezione? Fingi di saperlo!” Sofatour consiglia di intervenire proprio nel momento in cui il docente interroga un altro compagno. “Penserà che stai partecipando attivamente alla lezione, tanto ora non è toccato a te. E se dopo interroga anche te, non devi far altro che ripeter quello che ha detto il tuo compagno, con altre parole”. L’importante è parlare. Cameron Anderson e Gavin J. Kilduff hanno dimostrato empiricamente l’esistenza di questo effetto bluff. I due economisti statunitensi hanno osservato che chi si mostra sicuro di sé è percepito automaticamente come il più competente, probabilmente perché è spesso più rapido nel prendere la parola. […]
Quello che succede quando manca la possibilità si isolarsi si osserva bene nei casi di persone che soffrono della sindrome da burnout, l’esaurimento da lavoro. La direttrice di un centro di consulenza racconta di un numero crescente di collaboratori che si lamentano di riunioni fisse quotidiane (dailys) e scadenze ravvicinate (sprints). “Sono proprio i più introversi a sentirsi come lumache continuamente strappate fuori dalla loro casa“, dice una psicoterapeuta che vuole mantenere l’anonimato perché come secondo lavoro collabora con una multinazionale per renderla “agile”. Intanto i suoi pazienti accusano “insonnia, mancanza di appetito e stati depressivi”. Molti si mettono in malattia.
E c’è dell’altro: i gruppi tendono più facilmente a imbrogliare. L’economista Martin Kocher, dell’università di Vienna, ha indagato con un esperimento il livello di onestà nei gruppi […] La sua lucida constatazione: “I gruppi tendono a prendere decisioni più egoistiche e immorali dei singoli individui”. All’interno dei gruppi, infatti si verifica più facilmente una “deviazione dalla norma”, le persone che ne fanno parte si accordano su cos’è giusto e su cos’è sbagliato. “Per questo anche i singoli membri riescono più facilmente a reinterpretare la norma rispetto a quando devono decidere da soli”, spiega Kocher. Dunque è più facile contravvenire alle regole quando lo facciamo insieme ad altri.
Come esattamente si arrivi a questa “deviazione dalla norma” è stato studiato da Dan Ariely, professore di psicologia alla Duke university, negli Stati Uniti. Il singolo membro di un gruppo giustifica a se stesso l’imbroglio collettivo con il fatto che non ne trae vantaggio solo lui, ma l’intero gruppo. Ariely la chiama “truffa altruista”. Un presunto interesse di gruppo diventa una foglia di fico per il comportamento scorretto del singolo. Così anche il noto bugiardo può continuare a guardarsi allo specchio. Insieme s’imbroglia con più leggerezza. (Kerstin Bund e Marcus Rohwetter, Die Zeit, Germania – da Internazionale n. 1342)
Pur consapevoli che introversione e autismo non si equivalgono affatto (tutt’altro), prendiamo comunque atto del fatto che qualcuno, per fortuna, va controcorrente. È un’ottimo segnale, questo: “Assumiamo autistici. Hanno una marcia in più se impariamo a capirli” (la Repubblica Bologna, 22 febbraio 2020):
Il loro slogan è: «L’autismo non è un errore, ma un diverso sistema operativo ». Ed è per questo che loro i ragazzi autistici li cercano, li selezionano e li assumono. A tempo indeterminato, per 1400 euro al mese, non importa essere iscritti alle liste di collocamento per disabili, basta avere una diagnosi certificata e superare un test cognitivo. A Bologna arriva Auticon, la prima azienda di consulenza informatica che assume solo autistici ad alto funzionamento, alla Greta Thunberg. Ragazzi con alte capacità di concentrazione, in grado di “vedere” un errore in un sistema informatico prima di chiunque, bravissimi a testare i software. Ma al tempo stesso allergici al contatto fisico, ipersensibili agli stimoli, fragili nelle relazioni. «I curricula dei neurotipici non li accettiamo proprio – assicura il Ceo Alberto Balestrazzi – anche se ci accusano di fare discriminazione al contrario».
Nata in Germania nel 2011, in pochi anni l’azienda ha aperto filiali in otto paesi e due continenti, per un totale di 17 uffici e 300 dipendenti. In Italia la prima sede è stata inaugurata l’anno scorso a Milano e ha assunto finora dodici persone. A Bologna i primi due consulenti Auticon, un ragazzo e una ragazza, entrambi neolaureati, inizieranno a lavorare a marzo nella divisione sistemi informativi di Hera. «Ho presentato l’azienda in un incontro organizzato all’Asl di Bologna – spiega Balestrazzi -. Poi abbiamo fatto un test e selezionato alcune persone. […]».
Nato a Reggio Emilia, 58 anni, una vita passata nel mondo della consulenza aziendale, Balestrazzi fino a due anni fa di autismo non sapeva nulla. Dice: «Ho imparato che esiste un modo diverso di pensare». Con lui lavorano due psicologhe: visitano le aziende dove lavorano i consulenti Auticon almeno una volta a settimana. Fanno un lavoro di comunicazione, mediazione. « Si tratta soprattutto di smussare difficoltà e incomprensioni che possono sorprendere chi non ha mai avuto a che fare con persone autistiche – spiega Balestrazzi -. Per loro la pausa caffè può essere un fastidio, le chiacchiere a pranzo una fatica, le pacche sulle spalle possono creare emozioni. Un ufficio troppo rumoroso, una luce o un odore troppo forte possono causare un dolore quasi fisico. Noi spieghiamo ai colleghi che se un autistico ti dice di no non vuole offenderti, e se c’è un ritardo dei mezzi di trasporto è meglio che quel giorno non venga a lavorare affatto. Non sarebbe produttivo».
È un esercizio che fa bene a tutti, alla fine. « Noi diciamo che l’autistico è come il canarino nella miniera, che quando moriva dava agli altri il segnale di pericolo: sente dei disagi che magari sentono anche gli altri, ma li sopportano per convenzione. Le metafore non le capiscono: lavorare con loro insegna a parlare chiaro, a essere precisi, diretti, coerenti ». Il momento più bello? «Il primo assunto a Milano: ha 37 anni, sta comprando casa, si è iscritto a ingegneria, fino a quel momento stava sul divano di casa». (Caterina Giusberti)
Ad Auticon tutta la nostra simpatia!