Nel 1902 Hugo von Hoffmansthal scrive il capolavoro Lettera di Lord Chandos (Ein Brief), in cui affronta il tema della dissoluzione del soggetto, come ordinatore della realtà. Un «manifesto del deliquio della parola e del naufragio dell’io», secondo Claudio Magris. È uno dei possibili inizi (o prese di coscienza) della grande crisi del Novecento che coinvolge tutte le forme d’arte. In musica, attraverso la Seconda scuola di Vienna — con le figure di Arnold Schönberg e di Anton Webern — subentra con forza il silenzio. Che può diventare struttura e strumento. Per esempio nei Sechs kleine Klavierstücken op. 19 (1911) del primo e nelle Variationen für Klavier op. 27 (1935-36) di Webern.
È un grande passo verso il tentativo di equiparare il silenzio al suono. Parlando dell’ultimo Claude Debussy, Michel Imberty evoca un silenzio che compare non tanto per «sottolineare» i suoni, ma per «separarli», uniformando così il detto al non detto. Alle riflessioni sul silenzio John Cage (1912-1992) ha dedicato parte della propria attività, sottolineando (anche nel suo libro Silence del 1961) il ruolo «sonoro del silenzio», portato alle estreme conseguenze nel suo 4’33” del 1952: l’esecutore non deve fare assolutamente nulla, la «musica» nascerà da sola attraverso i colpi di tosse del pubblico, il rumore delle sedie…
Diversissimo il silenzio in Arvo Pärt (1935) e Giya Kancheli (19352019), più vicini all’aspra spiritualità di Meister Eckhart che a Visible Music (Nostalgie,1960) di Dieter Schnebel in cui il direttore mima solo i gesti, senza musica. Nella loro utopia del passato, Pärt e Kancheli vivono il suono come preparatore al silenzio. [(Helmut Failoni – La Lettura (Corriere della Sera, 22 marzo 2020)]