Solitudine

UNO. Il pomeriggio di martedì 17 luglio 2018 Marco Paolini era alla guida di una Volvo. Per una distrazione ha perso il controllo della vettura, andando a sbattere violentemente contro la parte posteriore di una Fiat 500 che lo precedeva. A bordo c’erano due amiche vicentine, di 52 e 51 anni. Per la violenza dell’urto l’utilitaria si è cappottata, ha oltrepassato la carreggiata della A4 ed è finita sulla tangenziale ovest, che corre a fianco dell’arteria. Dopo due giorni   Alessandra Lighezzolo è deceduta, nell’ospedale Borgo Trento di Verona dove era stata ricoverata in rianimazione in condizioni disperate.

Paolini è rimasto illeso. Non ha cercato scuse ed ha ammesso le sue responsabilità: «è stata colpa mia, ho avuto una distrazione» disse, prima di chiudersi in un silenzio lungo mesi che lo portò ad annullare tutti gli spettacoli programmati come segno di rispetto per i familiari della donna vicentina che aveva perso la vita. “Nulla sarà più come prima“. Quasi un anno dopo la tragedia, patteggiata una condanna a un anno di reclusione per omicidio stradale, pena sospesa con la condizionale, Marco Paolini ne parla con Gian Antonio Stella sul Corriere delle Sera:

(…) «Ricordo, quello sì, il rumore del cozzo contro l’utilitaria. E ricordo di aver ammesso subito che era stata colpa mia. Che ero io, il responsabile. Io ad avere sbagliato. Una signora di là della siepe, vedendomi molto agitato, mi gridò di non muovermi. Il resto, scusa, preferisco non raccontarlo. Ero lì, bloccato, stupito di non essermi fatto assolutamente niente mentre avevo gravemente ferito altre persone. Era una cosa che mi rendeva furibondo. Era ingiusto. Spaventoso».

La sproporzione…

«Si. Insopportabile. Tutti sappiamo che cose così possono succedere. Che una distrazione, un errore, una svista possono creare danni irreparabili. Tutti gli amici hanno provato a tenermi su ripetendomelo. Ma non hai modo di prepararti a questo. Quando succede… Undici mesi dopo quel giorno non è cambiato molto. Posso provare a capire me stesso. Ma non riesco a perdonarmi».

Perché hai deciso, oggi, di rompere il silenzio?

«C’è una sentenza. A mio carico. E c’è scritto nero su bianco: “omicida stradale”. Capisco la parola usata dal legislatore. La capisco. Bisogna rendere le persone consapevoli del rischio che fanno correre agli altri quando guidano. È giusto. Ma la parola “omicida”…».

È pesantissima da portare addosso.

«E non ha fine. La condanna a un anno di carcere con la condizionale, la sospensione della patente e il resto sono quanto prevede la legge. Ho ammesso di avere torto, ho patteggiato. Ma sono sicuro che le vittime di questo incidente che ho provocato non saranno dello stesso avviso. Li capisco. Se io pensassi a qualcuno che mi ha portato via la donna che amavo nessuna pena mi sembrerebbe adeguata… Farei fatica ad accettare una cosa così accaduta a causa della negligenza… Perché questa è la mia colpa: ne.gli.gen.za.» (…)

DUE. «“La solitudine, come il silenzio, è esperienza interiore che ci aiuta a vivere meglio la nostra vita. ”La solitudine interiore, la solitudine creatrice, e la solitudine dolorosa, la solitudine-isolamento, sono i due aspetti tematici in cui si manifesta nella nostra vita l’esperienza radicale della solitudine. (…)

La solitudine, che non è l’isolamento, è una delle strutture portanti della vita; e ogni esperienza di solitudine ha una sua propria dimensione psicologica e umana, e una sua propria declinazione temporale: aperta, in ogni caso, al futuro, all’avvenire, alle attese a alla speranza; e non invece risucchiata dal presente agostiniano che, staccato dal passato e dal futuro, contrassegna i modi di essere dell’isolamento che con la solitudine non ha nulla a che fare se non l’apparente (comune) allontanarsi dagli altri e dal mondo, e l’apparente (comune) dissolversi delle relazioni interpersonali.

Queste radicali differenze tra i modi di essere interiori della solitudine, e quelli dell’isolamento, non sono sempre tenuti presenti, e non lo sono abitualmente, nei discorsi che si svolgono sul tema, che è un problema lacerante, dell’essere-soli. Si può essere soli, certo, ci si può sentire soli, anche nel contesto di una folla, e non si è soli, ci si può non sentire soli, anche nel deserto: quando questo sia riscattato, e redento, da una palpitante apertura a noi stessi e, benché assenti, agli altri. Così, siamo soli nel deserto, o nella casa in cui abitiamo, nella cella di un monastero, o su di un’alta montagna, e nondimeno la nostra anima non è lacerata dalle spine roventi dell’essere-soli, ed è aperta alla solidarietà e al colloquio interiore: alla trascendenza che ci porta al di fuori della nostra individualità e ai confini del nostro io.» (Eugenio Borgna, La solitudine dell’anima – Feltrinelli, 2011)

TRE. «Sappiamo che, come cittadini, abbiamo obblighi e responsabilità nei confronti degli altri; che nessuna società può sopravvivere senza la mutua collaborazione dei suoi membri; che alla domanda di Caino a Dio dopo aver assassinato suo fratello Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello?», dobbiamo immancabilmente rispondere con un categorico «Sì».

Siamo assaliti ogni giorno da notizie di eventi atroci e di violenze, e da immagini della sofferenza altrui. Le persone che partecipano alle carovane migratorie, quelle che aspettano con la pazienza di Giobbe nei campi profughi, i senzatetto costretti a ripararsi in rifugi precari, ma anche gli uomini e le donne sfrattati che incrociamo per strada, sono incarnazioni di Abele, nostro fratello. Gli articoli dei giornali ci informano dei fatti, ma per comprendere ciò che sta accadendo, le opere di narrativa sono più efficaci. Sant’Agostino, nelle sue Confessioni, racconta che, nel piangere per il suicidio di Didone, nell’Eneide, si rese conto che lui stesso «stava morendo in quegli amori». La lettura di Virgilio lo aiutò a percepire il dolore del mondo.

Nel suo ultimo libro, Requiem per il sogno americanoNoam Chomsky sostiene che l’impoverimento dell’empatia collettiva nella società americana del XXI secolo è una diretta conseguenza di un piano strategico delle multinazionali per ridurre i poteri democratici e aumentare i profitti dei più ricchi. Nei suoi inizi, il cosiddetto “sogno americano” promuoveva la nozione di progresso individuale e anche collettivo, in cui ogni cittadino trae beneficio aiutando i suoi vicini. Tuttavia, a metà del secolo scorso, si cominciò a parlare delle virtù dell’egoismo, ammettendo domande come «Perché io, che non ho figli, dovrei pagare le tasse per l’educazione dei figli del mio prossimo?»; romanzi come La rivolta di Atlante di Ayn Rand hanno promosso l’immagine dell’eroe che trionfa esclusivamente con le sue strategie, perseguendo solo i suoi interessi esclusivi. Alla domanda di Caino, il protagonista del romanzo di Ayn Rand risponde esplicitamente «No».

L’empatia, la volontà di aiutare gli altri, l’altruismo, sono apparentemente virtù endemiche della nostra specie. Il professor Christopher Krupenye della University of St. Andrews, specialista nel comportamento dei primati, sostiene che «una delle caratteristiche più notevoli degli esseri umani è la capacità di essere servizievoli», e aggiunge che senza questa innata generosità non saremmo stati in grado di sopravvivere in tempi remoti quando eravamo primitivi cacciatori-raccoglitori. È probabile, sostiene il professor Krupenye, che dopo aver acquisito queste caratteristiche empatiche la nostra specie abbia gradualmente sviluppato le regole che oggi ci permettono di comprendere le responsabilità e i doveri che derivano dal vivere insieme e dal condividere minacce e rischi. Se per ragioni politiche e commerciali manipolate dai centri di potere abbiamo perso questo strumento vitale per la nostra sopravvivenza, che cosa possiamo fare per salvarci dalla nostra cecità volontaria nei confronti degli altri? Come possiamo tornare ad alimentare il sentimento primordiale dell’empatia? (Alberto Manguel – la Repubblica, 26 aprile 2019)

PERCH’IO

…perch’io, che nella notte abito solo, / anch’io, di notte, strusciando un cerino / sul muro, accendo cauto una candela / bianca nella mia mente – apro una vela / timida nella tenebra, e il pennino / strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo / e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto / che mi bagna la mente…

(Giorgio Caproni)

In testata: Nathalie Dumontier, Solitude – A seguire, dall’alto: Giorgio De Chirico, Solitudine, 1917 – matita su carta, MoMA, New York – Antonio Canova, Amore e Psiche stanti (particolare) – marmo bianco, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo – il brano Drive del gruppo The Cars è contenuto nell’album Heartbeat City (1984)

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