Ci sono novità poco belle, anzi decisamente brutte, sul fronte cancel culture (che detto in italiano sarebbe “cultura della cancellazione” che però non è cool, cioè non fa figo):
Dan-el-Padilla Peralta è uno studioso di storia romana che insegna all’Università di Princeton. Il New York Times gli ha dedicato un lungo articolo che ha dato ampia diffusione alle sue tesi, secondo cui bisogna decolonizzare la cultura greca e romana, riducendo il ruolo che il curriculum classico svolge nella formazione umanistica. «La sua condanna è senza appello: i classici hanno contribuito in maniera determinante alla formazione di una “white culture” da cui sono derivati colonialismo, razzismo, nazismo e fascismi. Dunque chiudiamo i dipartimenti di “classics” e facciamola finita. Altri studiosi, sia pure non con lo stesso radicalismo, hanno messo in evidenza i caratteri negativi della cultura antica, come la discriminazione subita dalle donne nell’Atene “madre” della democrazia. Senza contare che in alcuni college degli Stati Uniti ci si è chiesti se continuare a far studiare testi che — come le Metamorfosi di Ovidio — narrano vicende di “amori” che per noi costituiscono altrettanti casi di violenza femminile. Possiamo condannare il femminicidio e nello stesso tempo ammirare i versi in cui Apollo incenerisce Coronide perché lo ha tradito?» (Maurizio Bettini – la Repubblica 17aprile 2021)
«A suo avviso i classici non meritano di avere un futuro perché, sostiene lui, nascono per perpetuare il dominio razziale bianco. È un aspetto fondativo, connaturato, essenziale. La monumentalizzazione della civiltà antica del periodo neoclassico ha sostenuto l’invenzione della «bianchezza» (e viene citato l’antiquario tedesco Johann Joachim Winckelmann: «L’unico modo per diventare grandi è di imitare i Greci») e ha funzionato da lasciapassare morale per il colonialismo e la sopraffazione delle altre popolazioni. Il tutto escludendo l’eredità egizia ed ebraica nel proprio campo di studi, come aveva sottolineato il celebre libro “Atena nera” di Martin Bernal, che aveva già sollevato la questione, pur tra mille inesattezze storiche e linguistiche (anzi: diecimila).» (Dario Ronzoni, da Linkiesta.it)
Ma veniamo a noi.
«Che malinconia vedere una donna intelligente come Michelle Hunziker che decide di chiedere scusa “umilmente” per una microscopica battuta sugli occhi a mandorla dei cinesi, priva di qualunque intenzione offensiva. Un account moralista dei più cliccati, del quale non faccio il nome perché ha già quasi tre milioni di seguaci, aveva lanciato l’accusa di razzismo: che è come accusare l’ispettore Clouseau di attività antifrancesi perché parla con la erre arrotata (oddio, non vorrei avere dato l’idea per una nuova crociata online).
Si è scatenato il solito inferno di insulti e minacce — a quanto pare non di cinesi — e i due conduttori di Striscia, Hunziker e Scotti, si sono sentiti in dovere di scusarsi. Esprimendo loro la solidarietà che merita ogni vittima di linciaggio, mi permetto di dire che hanno fatto male. Bisogna alzare la testa e reggere l’urto ricattatorio dell’inquisizione online che promulga sentenze e commina pene, trasformando pagliuzze in travi e tenendo per le palle (non mi scuso per il riferimento sessista) persone, aziende, artisti che hanno il terrore di vedersi additare alla pubblica esecrazione, dunque di perdere popolarità e reddito.
Le aziende stanno dimostrando in media, nei confronti del fenomeno, una pavidità veramente imbarazzante. Nella loro attività comunicativa ormai accettano di vivere sotto ricatto: basta un avviso di garanzia di account come quello che ha messo in croce Hunziker, e si dichiarano colpevoli in partenza pur di evitare nuove vergate. Tocca dunque alle persone cominciare a rispondere, prima che sia troppo tardi. Chi ha la coscienza pulita risponda: non sei tu il mio giudice. Non mi fai paura. Anche se è un giudice con milioni di follower.» (Michele Serra – la Repubblica, 16 febbraio 2021)
Forse quella di Padilla è un questione di mira: attacca bersagli innocui non potendo (o non volendo) cercarne altrove. Quella di tirare spallate a una disciplina già debole di suo e messa in discussione ogni estate dai giornali in Italia non sembra una grande idea. Almeno dalle nostre parti. Ad ogni modo lo confesso: amo studiare il nostro passato anche classico, i Greci e i Romani, non solo come nostri antenati ma, nello stesso tempo, come “altri” da comprendere e confrontare con “noi”. Perché il passato va affrontato con gli strumenti della storia e della cultura non con l’ideologia della cancel culture. Altrimenti tanto vale confessare che in fondo siamo tutti razzisti, ad esempio perché chiamiamo “cinese” Sergio Cofferati e ogni tanto ci piace dire “Mi è semblato di vedele un gatto…“. Davvero eccessivo, come tutta la cultura della cancellazione. Coraggio amici, un po’di (auto)ironia; non sarà certo in questo modo che sconfiggeremo il vero razzismo.