«Un’esperienza che penso facciate tutti è la profonda indifferenza che noi proviamo verso i sogni degli altri. Persone veramente temibili sono quelle che ci avvicinano e ci dicono: “Ho fatto un sogno” e cominciano a raccontarcelo. Io le pavento perché non ho nessun interesse in generale per quello che capita nella mente di uno mentre sta dormendo. Se i sogni degli altri non ci interessano, anche i nostri sogni non interessano agli altri. Perciò se un narratore vuole raccontare un sogno deve inventarne uno in cui succedono cose strane, e deve scoprirle queste cose strane. Deve immaginare un sogno che per lui sia una sorpresa, un’acquisizione.» Così parlava Giuseppe Pontiggia durante le sue “Conversazioni sullo scrivere” che tenne per il programma Dentro la sera di RAI-Radio Due, tra maggio e luglio 1994 (poi pubblicate da Belleville Editore nel 2016) Aggiungiamo solamente che in genere siamo tutti abbastanza ipocriti da fingere di esserne davvero interessati.
Sostituendo ora nel ragionamento di Pontiggia la parola “viaggio” alla parola “sogno“, il risultato non cambia. Questo Pontiggia non lo dice; ma più modestamente qui lo affermiamo noi. Ne risulterebbe quindi: «Un’esperienza che penso facciate tutti è la profonda indifferenza che noi proviamo verso i viaggi degli altri. Persone veramente temibili sono quelle che ci avvicinano e ci dicono: “Ho fatto un viaggio” e cominciano a raccontarcelo. Io le pavento perché non ho nessun interesse in generale per quello che capita nella mente di uno mentre sta viaggiando. Se i viaggi degli altri non ci interessano, anche i nostri viaggi non interessano agli altri. Perciò se un viaggiatore vuole raccontare un viaggio deve inventarne uno in cui succedono cose strane, e deve scoprirle queste cose strane. Deve immaginare un viaggio che per lui sia una sorpresa, un’acquisizione.» Anche nel caso del racconto dei viaggi, in genere siamo tutti abbastanza ipocriti da fingere di esserne davvero interessati. Le estenuanti maratone denominate “serata diapositive” che incombevano al ritorno dei nostri amici e/o parenti quando ancora le diapositive esistevano stanno lì a testimoniarlo. Scagli la prima pietra chi…
Ciononostante, lo stucchevole tormentone sulla “filosofica ” differenza tra turisti e viaggiatori sopravvive alle diapositive. Ovviamente le rispettive fazioni si detestano, si ricoprono a vicenda di improperi, ognuno guarda in cagnesco l’avversario. Fiumi d’inchiostro (e di byte nella rete: basta digitare le due paroline in questione per verificarlo) sono stati riversati sull’annosa, irrisolvibile questione. Che d’altra parte ci sembra davvero malposta.
Cercando allora per di impostare la questione più seriamente, annotiamo che Bruce Chatwin (il quale ha fatto davvero del viaggio la sua ragione di vita) nel 1969 scrisse al suo editore Tom Maschler: «La domanda cui cercherò di rispondere è la seguente: “Perché gli uomini invece di stare fermi se ne vanno da un posto all’altro?”
All’estremo – teorico – opposto, annotiamo che Marcel Proust, autore di uno dei capolavori assoluti della letteratura mondiale (Alla ricerca del tempo perduto, romanzo suddiviso in sette libri) scritto senza muoversi dalla sua stanza rivestita di sughero, vi afferma che: «L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è.» (La prigioniera – quinto tomo del romanzo Alla ricerca del tempo perduto). Chi ha letto il romanzo in oggetto sa che Proust con questa frase si riferiva a Vinteuil (il musicista) ed Elstir (il pittore); i quali sono i personaggi della sua opera che rappresentano l’arte.
Alla ricerca del tempo perduto venne pubblicato, in parte postumo, a partire dal 1913. La frase di Chatwin riportata sopra è stata scritta nel 1969. Ma le date in questo caso non contano, potremmo tornare indietro nei secoli e la questione non cambierebbe affatto, perché essa riguarda il genere umano. Il viaggio di Proust consiste nel fatto che: “Questo noi lo possiamo fare con un Elstir, con un Vinteuil: con i loro simili, noi voliamo veramente di astro in astro.” Chatwin invece aveva la necessità di spostarsi (anche) fisicamente. Ma qual’è la differenza, quando il fine è il medesimo, se esso viene raggiunto in modo diverso? Nessuna.
Quando però lo scopo reale è del tutto differente, ad esempio quello di farsi un selfie davanti a una Monna Lisa sotto assedio, allora si parla d’altro. Anche se nessuno vorrà mai confessarlo, innanzitutto a sé stesso.
L’opposizione tra turisti e viaggiatori si può infatti ribaltare tale e quale sul cosiddetto “versante intellettuale”. Banalizzando e schematizzando c’è chi definisce “viaggiatore” colui che viaggia per vedere posti nuovi; “turista” invece colui che lo fa solo per tornare a casa e raccontare ciò che ha visto o quello che ha fatto durante l’assenza. Quello che interessa al turista, insomma, non sarebbe tanto il viaggio in sé, quanto il ritorno dal viaggio stesso, per poterlo raccontare a chi non c’era. Che poi la narrazione tratti di un viaggio, di un libro, di una mostra, di un concerto, di un film o rappresentazione teatrale o altro, questo al narratore non importa nulla. Così concepito, il viaggio (oppure il sogno) degli altri non interessa proprio a nessuno. Com’è giusto che sia; perché allora si tratta dell’ennesimo stratagemma per mettere al centro dell’attenzione – ancora una volta – il proprio trascurabile, infinitamente sopravvalutato e narcisistico “ego”. Si tratta cioè della solita tossina culturale – il tarlo – che ammorba da qualche decennio prima la nostra coscienza, quindi la nostra società.