Un pregiudizio come un altro

UNO. «Tutti conoscono quelle nature chiuse, impenetrabili, spesso timide che formano un così netto contrasto con gli altri caratteri che sono invece aperti, socievoli, spesso allegri o almeno gentili e affabili, che vanno d’accordo con tutti, o che magari litigano, ma anche litigando mantengono rapporti tali che attraverso di essi esercitano un’influenza sugli altri, e si lasciano a loro volta influenzare. […] Si tratta […] di un’antitesi fondamentale, ora più ora meno esplicita, ma sempre constatabile quando si tratta di individui dalla personalità in qualche modo spiccata. […] …il fattore decisivo è da ricercarsi nella disposizione del bambino. Si deve cioè in ultima analisi attribuire alla disposizione individuale il fatto che, a parità di condizioni esterne, un bambino assume un tipo e l’altro un tipo opposto. […]

La coscienza dell’introverso vede sì le condizioni esterne, ma elegge a fattore determinante l’elemento soggettivo. Questo tipo si rivolge pertanto a quel fattore della percezione  e della conoscenza che rappresenta la disposizione soggettiva e ricettiva di fronte allo stimolo sensoriale. Due persone, ad esempio, vedono lo stesso oggetto, ma non come se le due immagini ricavate fossero tra loro del tutto identiche. […] Mentre il tipo estroverso si richiama prevalentemente a ciò che a lui giunge dall’oggetto, l’introverso si appoggia piuttosto su ciò che l’impressione esterna mette in azione nel soggetto. […] Posso affermare sin da questo momento che io considero fondamentalmente errato e svalutativo quel criterio in base al quale questa impostazione viene chiamata, con Weininger, filautistica, oppure autoerotica o egocentrica o soggettivistica o egoistica. Questo criterio corrisponde al pregiudizio che l’atteggiamento estroverso nutre nei riguardi della natura dell’introverso. (Carl Gustav Jung: da Tipi psicologici – Bollati Boringhieri, 2007)

In altre parole, questo pregiudizio da una lato dà per scontata la natura disinteressata e socievole del tipo estroverso; dall’altra quella scontrosamente  sociale dell’introverso. Si può invece dimostrare che molto spesso nella realtà succede esattamente il contrario.

DUE. «Con maggiore o minore intensità, in ogni persona si svolge una lotta tra due forze, l’anelito alla riservatezza e la spinta a muoversi tra la gente; l’introversione, cioè l’interesse rivolto all’interno di sé, all’energia vitale del pensiero e dell’immaginazione, di cui è fatta la vita interiore, e l’estroversione, l’interesse rivolto all’esterno, verso il mondo delle persone e dei valori tangibili. […] Temperamenti diversi prendono decisioni diverse, com’è ovvio, e ci sono menti in cui il mondo interiore trionfa in modo persistente su quello esterno, e viceversa. Ma dobbiamo tener conto del fatto in sé – di una lotta che continua o che può continuare tra i due orientamenti: introversione ed estroversione. […]

Tolstoj senza dubbio si rendeva conto che in lui, come in molti scrittori, si agitava una lotta personale fra la solitudine creativa e la spinta ad associarsi all’intero genere umano – la battaglia fra il libro e la combriccola. In termini tolsoiani, nei simboli della più tarda filosofia tolstoiana, dopo ch’egli ebbe terminato Anna Karenin, la solitudine creativa divenne sinonimo di peccato: era egoismo, vezzeggiamento del proprio io, e perciò peccato. Viceversa, l’idea dell’intera umanità era in termini tolstoiani l’idea di Dio: Dio è negli uomini e Dio è nell’amore universale. E Tolstoj caldeggiava la perdita della propria individualità in questo Dio-Amore universale. Egli suggeriva, in altre parole, che nella lotta personale fra l’artista senza dio e l’uomo religioso il secondo dovesse avere la meglio, se l’uomo sintetico desiderava avere la meglio.»

Anche per l’ultimo Tolstoj, quello che aveva rinunciato ad esprimere il suo immenso talento artistico, la lotta tra i due diversi orientamenti fu risolta da un pregiudizio definitivo: l’introversione è peccato; l’estroversione invece porta a Dio.

TRE. «Quando Stanivslavskij e Nemirovič-Dančenko fondarono il loro piccolo teatro a Mosca, subito tutto iniziò a cambiare. Il teatro, da quella realtà piuttosto trita che era diventato, cominciò a risollevarsi, per tornare a ciò che doveva essere: un tempio di arte ricercata e autentica. Il Teatro d’Arte di Mosca era sostenuto soltanto dalle finanze private dei suoi fondatori e di alcuni loro amici, ma non necessitava di fondi cospicui. L’idea di base che esso incarnava era quella di servire l’Arte non per i soldi o per la fama, ma per le più alte finalità artistiche. Nessuna parte era considerata più importante di un’altra, ogni dettaglio era ritenuto degno di attenzione tanto quanto la stessa scelta del dramma. Gli attori più valenti non rifiutavano mai i ruoli minori che si vedevano attribuire, perché il loro talento era il più adatto a garantirne il massimo successo. Nessun dramma veniva messo in scena finché il regista non era sicuro che ii migliori risultati ottenibili erano stati raggiunti in termini di realizzazione artistica e perfezione di ogni singolo particolare – non importava quante prove avessero già fatto.

Il tempo non costituiva un ostacolo. L’entusiasmo per questo alto servizio animava ogni singolo membro della troupe; e se per qualcuno una qualsiasi altra considerazione acquistava maggior considerazione rispetto alla ricerca della perfezione artistica, per costui non c’era posto in quella comunità teatrale. Trasportati dal profondo entusiasmo artistico dei fondatori, vivendo come una grande famiglia, gli attori continuavano a lavorare su ciascun spettacolo come se dovesse essere il solo e unico della loro vita. C’era sacro timore nel loro operare, e una commovente abnegazione. E c’era anche un incredibile lavoro di squadra. Infatti, si dava per scontato che nessun attore tenesse alla propria recitazione o al successo personale più più che alla generale recitazione della troupe, al generale successo della performance, A nessuno era permesso entrare dopo la levata del sipario. Nessun appaluso veniva tollerato tra un atto e l’altro. (Vladimir Nabokov: Lezioni di letteratura russa – Adelphi, 2021)

QUATTRO. «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: “Michele vieni in là con noi dai…” e io: “andate, andate, vi raggiungo dopo…”. Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no. Ciao.» (Nanni Moretti – dal film Ecce bombo, 1978) Alzi la mano chi in questa scena non ha riconosciuto almeno un po’ se stesso nella propria adolescenza o gioventù. Domandiamoci ora: Michele Apicella (il personaggio impersonato nella pellicola da Nanni Moretti) è un soggetto introverso oppure al contrario estroverso?

E ancora: «Il 2 settembre è morto Daniele Del Giudice. Uno scrittore vero, un uomo pieno di pudore, di sensibilità.[…]  Il giorno della morte di Del Giudice è scattata la competizione a fotografare i suoi libri sugli scaffali di casa, e chi non era in casa l’ha fatto appena possibile. Forse, questa distorsione dell’idea di partecipazione – in realtà stai partecipando a te stesso, stai rimpolpando una reputazione – è la più impietosa fotografia (ma dovrei dire “pic”) della situazione: una cornice vuota che attende sempre e solo il nostro volto.

Scorrendo i social nei giorni della morte di Roberto Calasso, insieme a manifestazioni di dolore legittime – chi ha parlato della fine di un’epoca ha detto bene, chi lo conosceva davvero ne ha raccontato con intelligenza e misura – era inevitabile incappare qua e là in autopromozioni desolanti o in tentativi tragicamente goffi di vincere la gara a chi aveva più Adelphi in casa (incolpevole la spiccata fotogenia dei libroni). Tutti selfie camuffati e autocertificazioni di straordinaria sensibilità e indefesso amore per la cultura, affisse ai muri mentre si canta strazio civettuolo di funerale in funerale. Approfittare della morte di uno scrittore per accreditarsi: strillare il proprio dolore ai quattro venti non basta più, è ormai d’obbligo che l’illustre cadavere sia baciato dal riflesso del proprio narcisismo. Ma peggio dell’applauso a un funerale c’è solo applaudire se stessi al funerale di un altro.» (Marco Archetti – Il Foglio Quotidiano, 9 settembre 2021)

Ripeto allora la domanda: Michele Apicella  è un introverso o un estroverso? Un esibizionista o un timido? E ne aggiungo un’altra: e chi applaude ai funerali; chi diffonde all’universo mondo propri selfie con i libri di scrittori appena scomparsi…?

CINQUE. La caratteristica che accomuna i personaggi sopra citati è una sola: un preoccupante narcisismo, l’egolatria dell’intellettuale, dell’artista, del professionista, del cittadino: il tarlo dei nostri tempi. Così come è vero che esistono persone riconosciute “coram populo” caratterialmente estroverse e che in realtà sono spesso solo individui insicuri, incapaci di solitudine e alla ricerca della più ampia platea possibile, cioè di un pubblico, un “uditorio” di fronte al quale esibire se stessi; è altrettanto vero che un simile livello di narcisismo esibizionista può nascondersi dietro il carattere dell’introverso, che può essere altrettanto vuoto, incapace di empatia e di ascolto. Si tratta di differenti modi per ostentare il proprio ego e disinteressarsi di tutto il resto.

Il tratto narcisista, purtroppo, è oggi la nostra principale caratteristica. Un’esperienza come quella del piccolo Teatro d’arte di Stanivslavskij e Nemirovič-Dančenko a Mosca (1898) non è più realistica, è addirittura improponibile e inconcepibile. Provate infatti ad immaginare attori contemporanei che tengano alla generale buona riuscita della performance più che al proprio ruolo (magari secondario) o al successo personale; che servano davvero l’Arte non per i soldi o per la fama, ma per le più alte finalità artistiche: diverrebbero immediatamente oggetto diffidenza e pre-giudicati deboli, insicuri e perdenti. Ancora: provate a immaginare un regista, una produzione e una intera troupe per cui,  animata dall’entusiasmo per l’alto servizio che sta rendendo, il tempo non costituisca un ostacolo; in cui nessun membro della troupe ponga una qualsiasi considerazione personale che acquisti ai suoi occhi maggior importanza rispetto al “gioco di squadra”, alla ricerca della perfezione artistica dell’opera. Impossibile, pura fantascienza o utopia, termini divenuti sinonimi.

Tornando quindi al tema iniziale – il pregiudizio che l’atteggiamento estroverso nutre nei riguardi della natura dell’introverso –  in effetti sorge il dubbio di stare solo perdendo il nostro tempo. Come molti altri, infatti, anche questo è un pregiudizio talmente radicato nella nostra declinante “civiltà” da essere ormai considerato un fatto di natura. Come ha scritto Jung: «Pensare è molto difficile, per questo la maggior parte della gente preferisce giudicare.» È sempre stato così e – temo – sempre così sarà; tanto vale farsene una ragione. Perciò: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.»

Immagine in testata: René Magritte: L’Impero delle luci, 1949 – Nelle immagini a seguire, dall’alto: Carl Gustav Jung, Lev Tolstoj, Vladimir Nabokov – Il brano Everlasting Everything dei Wilco è contenuto nell’album Wilco (The Album), 2009

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