«E questa roba qua mi dovrebbe piacere?» Laurea in Matematica con lode e sorrisino di sufficienza sulle labbra: se ti trovi di fronte a uno schizzo di Picasso con la persona in oggetto, dovresti come minimo intuire molto sulla presunzione, superficialità e ottusità di coloro che frequenti. E invece no. D’altra parte uno tende a pensare che se una domanda non ha senso, ne consegue che non esiste nemmeno una possibile risposta. Perciò soprassiedi (sbagliato!), prendi atto del vuoto, dell’abisso che spesso volontariamente viene posto dalle persone tra il narcisismo egoistico del sé stesso da un lato, il mondo “esterno” dall’altro. Dove per mondo si intende tutto, ma proprio tutto ciò che fuoriesce dai propri pregiudizi. Tra i quali pregiudizi, uno dei più deleteri è senz’altro la convinzione che l’universo intero possa essere incasellato con precisione matematica dentro un casellario preconfezionato nella propria testa. Come ha scritto Francesco Bonami, «C’è questa fissazione, in particolare fra chi possiede un talento scientifico e non capacità artistiche, a voler ridurre l’arte a scienza. Ma è una sfida persa in partenza».
Luigi Baldacci ha scritto che in Federico De Roberto c’è molto di velleitario. «Ma il velleitarismo di De Roberto muove appunto da una ragione culturale profonda: eliminare la pietà, il riflesso e la commozione autobiografica, significava fare veramente del romanzo (e solo a questo patto era possibile) uno strumento di scienza e d’illuminazione della società: arte come conoscenza non già di verità private, ma generali e storiche.» Duole però constatare che, purtroppo, è molto più diffuso il costume opposto: l’arte come paravento sulle verità, sia private sia generali e storiche. «Gesù Cristo – aveva scritto Leopardi nell’LXXIV dei Pensieri – fu il primo che indistintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere; quell’avversario di ogni grandezza intrinseca e veramente propria dell’uomo; derisore d’ogni sentimento alto… il quale Gesù Cristo dinotò col nome di mondo».
La mia opinione personale, invero non molto originale, ma che comunque giungo qui a proporre come teoria generale, è la seguente: “I pregiudizi, le rigidità e le fissazioni delle persone derivano dalla paura della libertà e della verità, poiché la prima comporta rischio, la seconda ansia. E tutte due assieme insicurezza.” Faccio un esempio a caso. Mettiamo che da ragazzo mi sia appassionato alla musica di Vasco Rossi e successivamente io non ascolti quasi altro per i successivi cinquant’anni: con questo, a mio sommesso parere, non dimostro tanto il mio amore per la musica, quanto la paura di scoprire che magari ci possa essere in giro per il mondo qualcosa di diverso o addirittura migliore (!) del Blasco. Il confine con il fanatismo è molto labile e indeterminato. Come per la musica, così per tutto il resto.
Si tratta di una forma mentis molto diffusa, anche perché essa è molto comoda e confortevole nello svolgimento delle formalità quotidiane, nonché nella “gestione” dei possibili conflitti, sempre in agguato nei rapporti interpersonali (non parliamo poi di quelli parentali: genitori, fratelli e sorelle non si scelgono, marito e moglie invece sì…). Questo dato oggettivo rafforza quindi la sopraesposta teoria: pregiudizi, rigidità e fissazioni derivano dalla propria paura della libertà e della verità; meno vedo, meno sento e meno parlo delle situazioni reali che mi circondano, più mi conformo più posso ignorare deliberatamente cose scomode, evitare di parlarne, quindi mettermi in dubbio o addirittura rischiare angoscia e insicurezza. La polvere sotto il tappeto è un perfetto circolo vizioso; che però – come tutti i circoli viziosi – conduce prima o poi a qualche seria complicazione.
Come scrive Claudio Magris, infatti, «Le difficoltà, le occasioni di conflitto devono essere affrontate in tempo, come le malattie. Certe malattie prese in tempo sono pericoli modesti, ma se si mette la testa sotto il cuscino e non si vogliono vedere, possono condurre anche alla morte. La stessa cosa vale per le comunità, per i valori.» (in Amata scrittura di Dacia Maraini – BUR contemporanea, 2018)
A chi tende a ridurre l’arte (e i rapporti umani, e personali, e parentali) a scienza e precisione, ricorderei che già nel 1927 fu enunciato il principio di indeterminazione di Heinsenberg – che una laureata in Matematica dovrebbe conoscere. Cioè un altro duro colpo al determinismo classico che mina alle fondamenta l’idea che, conoscendo ad un dato istante la posizione e la velocità di una particella, si riesca a conoscerne il valore ad un qualunque tempo successivo. Werner Heisenberg e la teoria quantistica sostengono che la realtà non esiste fino a che non viene osservata. “L’idea di un mondo reale oggettivo le cui parti più piccole esistono oggettivamente nello stesso senso in cui esistono le pietre o gli alberi, indipendentemente dal fatto che le osserviamo o meno … è impossibile”, ha scritto. Per di più l’osservazione di un fenomeno tende a modificare il fenomeno stesso. Poffarbacco!
Il mondo insomma è davvero complicato, imprevedibile e non catalogabile. D’altra parte, ognuno è libero di credere il contrario e magari di darsi un brivido di illusorio anticonformismo anche solo, chessò… con una spruzzatina di azzurro sui capelli. Che poi le sue azioni concrete dimostrino il contrario, è per lei un trascurabile dettaglio. Proprio vero: chi si accontenta gode. «E questa roba qua mi dovrebbe piacere?»