La verità e gli intellettuali

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Julien Benda designa col termine chierici “tutti coloro la cui attività, per natura, non persegue fini pratici, ma che, cercando la soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dicono in qualche modo: <<Il mio regno non è di questo mondo>>. Vi è quindi un’esplicita assimilazione della figura dell’intellettuale a quella dell’ecclesiastico, quindi al religioso. Il “chierico”, come il “laico”, vien da lui configurato quale tipologia ideale.benda

Leggendo “Il tradimento dei chierici” (Piccola Biblioteca Einaudi – 2012) si incontra questa frase: “Penso che lo scrittore che tratta posizioni morali, non nei termini di oggettivi dello storico o dello psicologo, ma da moralista, cioè improntandole a giudizi di valore (…) ha il dovere di assumere una posizione precisa, a rischio altrimenti di cadere nella predicazione del dilettantismo, che costituisce, specificamente in fatto di morale, un insigne tradimento di chierico.”

saidEsattamente il contrario di quanto sosteneva Edward W. Said in “Dire la verità. Gli intellettuali e il potere” (Feltrinelli – 2014): poiché “Ciascuno di noi vive in una società determinata, appartiene a una nazione caratterizzata da una lingua, da una tradizione e da una situazione storica specifica. In che misura gli intellettuali sono al servizio di queste realtà e in che misura si oppongono a esse? Lo stesso si può dire del rapporto degli intellettuali con le istituzioni (università, chiesa, gruppi professionali) e con i grandi poteri internazionali, che ai giorni nostri hanno cooptato l’intellighenzia in misura straordinaria. (…) Quindi, per me il principale dovere degli intellettuali è quello di tentare di raggiungere una relativa indipendenza da simili pressioni, ed è per questo che ho descritto l’intellettuale come un esiliato e un emarginato, un dilettante, oltre che l’autore di un linguaggio che si propone di dire la verità al potere”.

Per Benda il dilettantismo rappresenta “un insigne tradimento”, per Said invece esso è il principale dovere dell’intellettuale, che per lui deve sempre essere un outsider. Ma la contraddizione è soltanto apparente. Scrive infatti Said che “il modo di agire dell’intellettuale si fonda su principi universali: tutti gli esseri umani hanno il diritto di aspettarsi dai poteri secolari o dello stato modelli di comportamento dignitosi in fatto di libertà e giustizia; la violazione deliberata o involontaria di  tale diritto va denunciata e combattuta con coraggio.” In questa frase è sintetizzato gran parte del messaggio di fondo, il contenuto fondamentale di ambedue i libri. Ciò che unisce i due autori è l’incrollabile fiducia e fedeltà rispetto precisi valori universali. E’ anche innegabile – altro tratto comune – che essi intendono con ciò lanciare un preciso atto di accusa alla “classe” intellettuale del proprio tempo. Il cui tradimento consiste nel perseguire troppo spesso fini pratici anziché difendere la (spesso) scomoda verità dei fatti. Cosa che sarebbe invece richiesto dal ruolo che si sono scelti. Da questa radice avvelenata proliferano poi  tutte le malapiante da cui siamo infestati.

odio-gli-indifferenti-226844-1Ma allora dove si colloca (tra i “buoni” o tra i “cattivi”?) il cosiddetto “intellettuale organico” di cui parlava Antonio Gramsci? Sappiamo che per lui esistevano due categorie di intellettuali: quella tradizionale – insegnanti, ecclesiastici, funzionari – che svolgono nel tempo sempre la stessa funzione; poi quella degli intellettuali organici, direttamente collegati alle classi o le imprese che si servono di loro per i loro scopi e interessi. Scrive Said: “Gramsci ritiene che gli intellettuali organici siano attivamente coinvolti nella società, ossia costantemente impegnati a lottare per cambiare orientamenti ed espandere mercati; a differenza degli insegnanti e degli ecclesiastici, che sembrano più o meno rimanere al loro posto svolgendo anno dopo anno lo stesso tipo di lavoro, gli intellettuali organici sono sempre in movimento, sempre in prima linea.”

Del resto ecco cosa scrive lo stesso Gramsci: “Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare”. (da Antonio Gramsci – Odio gli indifferenti – Chiarelettere 2016).

pasoliniE ancora: come dovremmo collocare la straordinaria opera intellettuale di Pier Paolo Pasolini, il quale ad esempio nelle “Lettere luterane” (Einaudi, ET Saggi 2005) “nell’ultimo anno della sua vita condusse, dalle colonne del «Corriere della Sera» e del «Mondo», una rovente requisitoria contro l’Italia di quel periodo: un’Italia da trent’anni in mano ai «gerarchi democristiani», divorata dal consumismo e dal conformismo; un’Italia «distrutta esattamente come l’Italia del 1945» anzi, dove a essere in macerie sono i valori e non le case.”? (dalle note di copertina)

Forse la soluzione (buoni o cattivi? chierici o traditori?) si trova nella distinzione introdotta da Max Weber   tra “etica della convin­zione” — o più weberprecisamente “eti­ca dei princìpi” (Gesinnungsethik) ed “etica della responsabilità” (Verantwortungsethik).

La prima è un’etica assoluta, di chi ope­ra solo seguendo principi rite­nuti giusti in sé, indipendente­mente dalle loro conseguenze. E’ questa un’etica della testimonianza assolutizzata: “avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”.

La seconda è l’etica veramente pertinente alla politica. L’etica della responsabilità si riferisce alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mette in atto.

Il pro­blema, scrive Weber, è che «il raggiungimento di fini buoni è accompagnato il più delle vol­te dall’uso di mezzi sospetti», e «nessuna etica può determi­nare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifica” i mezzi e le altre conseguenze moralmente peri­colose». Chi non tiene conto di questo — che dal bene non deriva sempre il bene e dal male non deriva sempre il ma­le — «in politica è un fanciul­lo».

Le due etiche non sono però «antitetiche ma si comple­tano a vicenda, e solo congiun­te formano il vero uomo, quel­lo che può avere la “vocazione per la politica“», salvo ribadire che tra esse non potrà mai dar­si vera conciliazione né armo­nia a buon mercato. (Paolo Ferrario, da Antologia del tempo che resta)

Così il cerchio si chiude, tornando al punto da cui siamo partiti. Infatti, Benda scrive: “il chierico mi sembra venir meno alla sua funzione scendendo sulla pubblica piazza solo se vi scende (…) per farvi trionfare una passione realistica di classe, di razza o di nazione. Quando Gerson salì sul pulpito di Notre -Dame per denunciare gli assassini di Luigi d’Orleans, quando Spinoza, a rischio della vita, andò a scrivere dei carnefici dei Witt: «Ultimi barbarorum», quando Voltaire si battè per Calas, quando Zola e Duclaux andarono a testimoniare in un celebre processo, questi chierici assolvevano pienamente, e nella maniera più nobile, alla loro funzione di chierici; essi erano sacerdoti della giustizia astratta e non si macchiavano di alcuna passione per un oggetto terreno. Del resto, esiste un criterio sicurissimo per sapere se il chierico che agisce in pubblico lo fa in modo conforme al suo ufficio: viene immediatamente insultato dal laico, di cui disturba gli interessi (Socrate, Gesù). Si può dire in partenza che il chierico lodato dai secolari tradisce la sua funzione.”  La verità ha i confini sempre arruffati, ma i traditori di certo non mancano.

Nell’immagine in testata: illustrazione di Escher.

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