Vittorio Gregotti (1927 – 2020)

E’ morto questa mattina a Milano l’architetto Vittorio Gregotti. Aveva 92 anni ed era ricoverato per una polmonite. A darne notizia è stato su Facebook Stefano Boeri, il presidente della Triennale. (ansa.it -15 marzo 2020)

[…] Ai suoi occhi Rogers appare «una figura del tutto nuova nel panorama dei razionalisti italiani: il suo modello è Leon Battista Alberti, rivendica la condizione di intellettuale e la responsabilità politica dell’architetto ». […]

Negli ultimi vent’anni è la preoccupazione per la crisi dell’architettura che cattura la riflessione teorica di Gregotti. I suoi scritti sono venati di scoramento per una disciplina che perde di vista il disegno complessivo, che sottovaluta la dimensione urbana e che si concentra sul singolo oggetto, quanto più spettacolare, tanto più attraente. «È un’agonia della modernità», scrive in Architettura e postmetropoli (2011), e il suo mestiere gli appare conquistato «dal mito del caos, dell’instabilità come valore». È questo il risultato della sottomissione, cui molti suoi colleghi si adattano, alle logiche di un capitalismo finanziario che ha nel settore immobiliare un luogo di espansione di dimensioni globali. L’effetto è, ai suoi occhi, la riduzione dell’architettura a ornamento, a decorazione, a celebrazione, «sino a far diventare il monumento urbano un’immagine di marketing di una società della seduzione generalizzata e lo sviluppo della città solo un casuale affare immobiliare». (Francesco Erbani – la Repubblica 16 marzo 2020)

[…] Già in quel suo testo [Il territorio dell’architettura, pubblicato da Feltrinelli nel 1966 – N.d.R.] Gregotti delineava il compito da affidare all’architettura: quello di essere un’attività artistica che nasce dall’osservazione critica della realtà e si inserisce in un territorio per apportare miglioramenti sociali attraverso un proprio linguaggio. È un’idea illuministica, vicina al pensiero di Jürgen Habermas: muove dall’analisi negativa della Dialettica dell’illuminismo di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer ritenendo, però, possibile agire per migliorare il progetto incompiuto della Modernità. Progettare significa ordinare la complessità dei sistemi sociali, economici, fisici, tecnici e politici all’interno di un discorso formale, un abaco, anche riconoscibile, come sarà il suo. […]

L’affermarsi della Postmodernità lo vede dall’altra parte della barricata, con l’amico Umberto Eco a far da tramite tra il mondo dell’impegno critico e quello della fine dei grandi récit, del disimpegno postideologico, dell’affermarsi dell’immagine e dell’ermeneutica sulla Ragione, della riduzione del disegno industriale (poi dell’architettura) e fatto «di moda», esercizio stilistico, merce di consumo, brand. (Pierluigi Panza – Corriere della Sera, 16 marzo 2020)

[…] Lui credeva nella magia del talento, della grandezza, della invenzione, della immaginazione che continuano anche dopo che un’epoca è finita. «Tutta la civiltà – ti diceva – è fatta di balzi e sobbalzi che portano il nuovo persino se la scena sembra vuota.» (Furio Colombo, il Fatto Quotidiano,

[…] Ed è giusto che la savia sentenza sia affidata alla voce del maestro. Ci sono infatti maestri – pochi, ma ci sono – che, quando parlano loro, è gran festa e guadagno stare zitti, per  risentirseli poi parlare da dentro. (Vittorio Sermonti, da L’inferno di Dante – BUR, 2015)

Grazie, Maestro.

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