1. COCA-COLA. Il 23 aprile 1985 la Coca-Cola ebbe la malaugurata idea di togliere dal mercato la formula tradizionale del suo prodotto e di sostituirla con la più dolce “New Coke”. Alla prova dei fatti, non fu affatto una buona idea; in un servizio giornalistico del tempo troviamo scritto: «La Coca-Cola non ha previsto la profonda frustrazione e rabbia che avrebbe provocato il suo gesto. Da Bankor a Burbank, da Detroit a Dallas, decine di migliaia di amanti della Coca si sono sollevati come un sol uomo per attaccare il gusto della nuova Coca e chiedere il ritorno della loro vecchia, cara Coca-Cola». (articolo di J. Greenwald – Time, 22 luglio 1985) Un certo Gay Mullins, un pensionato di Seattle, divenne addirittura una celebrità nazionale fondando una società chiamata Old Cola Drinkers of America (Vecchi bevitori americani di Coca), il cui scopo era quello di riportare sul mercato la vecchia formula della bevanda; l’associazione arrivò a tentare una causa di class action contro la Coca-Cola. Senza successo.
La cosa per noi più interessante della vicenda è però un’altra: l’attivissimo mr. Mollins, sottoposto ad un un test anonimo, aveva infatti preferito il gusto della New Coke, oppure non era riuscito a distinguerlo da quello della Coca-Cola. In altre parole: egli si batteva solo per qualcosa che sentiva di avere perso, al cui confronto il prodotto che gli piaceva di più valeva di meno. Si tratta di un pregiudizio istintivo molto diffuso che i sociologi chiamano “avversione per la perdita”: «Elemento anche più potente della semplice indisponibilità di un prodotto, la rimozione della Cola originaria dal mercato significò che i consumatori quotidiani di Coca-Cola perdevano un bene al cui accesso erano abituati regolarmente; e la tendenza a essere più sensibili alle possibili perdite che non ai possibili guadagni è uno dei dati più dimostrati dalle scienze sociali.» (N.J. Goldsterin, S.J. Martin, R.B. Cialdini: 50 segreti della scienza della persuasione – TEA, 2010)
2. ZEITGEIST. Sul numero 49 della rivista “Alfabeta” del giugno 1983 sono apparse delle Postille a “Il nome della rosa” in cui Umberto Eco discute del rapporto che l’autore assume nei confronti della scrittura e nei rapporti con il lettore. Come scrive Giulio Ferroni, «Il narratore ha progettato e costruito un modello di lettore, in perfetta coerenza con le teorie da lui stesso elaborate (secondo le quali, appunto, scrivere è sempre costruire un modello di lettore).» Eco conferma: «Mentre l’opera si fa, il dialogo è doppio. C’è il dialogo tra quel testo e tutti gli altri testi scritti prima (si fanno libri solo su altri libri e intorno ad altri libri) e c’è il dialogo tra l’autore il proprio lettore modello. […]
La differenza è se mai tra il testo che vuole produrre un lettore nuovo e quello che cerca di andare incontro ai desideri dei lettori tali e quali li si trova già per la strada. In questo secondo caso abbiamo il libro scritto, costruito secondo un formulario buono per prodotti serializzati, l’autore fa una sorta di analisi di mercato, e si adegua. Che lavori per formule lo si vede sulla distanza, analizzando i vari romanzi che ha scritto, e rilevando che in tutti, cambiando i nomi, i luoghi e le fisionomie, si racconta la stessa storia. Quella che il pubblico già chiedeva.
Ma quando lo scrittore pianifica il nuovo, e progetta un lettore diverso, non vuole essere un analista di mercato che fa la lista delle richieste espresse, bensì un filosofo che intuisce le trame dello Zeitgeist. Egli vuole rivelare al proprio pubblico ciò che esso dovrebbe volere, anche se non lo sa. Egli vuole rivelare il lettore a se stesso.» (Umberto Eco)
3. BIRIGNAO. È una parola onomatopeica che proviene dal mondo dello spettacolo, dove designa certe pronunce ridicole e artefatte. Alberto Arbasino, nel volume del 1978 In questo stato, descrive tutta una serie di deformazioni, alterazioni, banalizzazioni che la retorica in uso nella stampa periodica produce nei confronti dei fatti, del modo stesso in cui possono essere vissuti, interpretati, riconosciuti. Da questa prospettiva il linguaggio giornalistico merita per lui di essere designato con il termine spregiativo di giornalese, che si svolge come un birignao.
«Per cui sfogliando il giornale di oggi o di ieri o dell’altro ieri, ecco sempre una “solita solfa” immutabile e miserabile, il lettore apprende comunque che in quella friggitoria che è il nostro Bel Paese – tutto cerini accesi e carboni ardenti e patate bollenti e mani sul fuoco e mani in pasta e cacio sui maccheroni e peli nell’uovo e ciambelle col buco e macchie d’olio e botte calde e fumate nere e magari gatte al lardo e cavoli a merenda e tutto quel grasso che cola tra pentole e crusche e farine e coperchi e gocce e vasi e padelle e braci – ogni ventiquattr’ore nei saloncini barocchetti del Potere ci sono soprattutto (o soltanto) molti bracci di ferro e molti piedi di piombo e molti guanti di velluto, molte bucce di banana per terra, molte spugne gettate e molti nodi al pettine, molti panni sporchi in casa e molta acqua sporca del bagno, molta acqua anche sotto i ponti oltre che al proprio mulino… […] addirittura un dovere civico: lo smascheramento di un manierismo mistificatorio e regressivo che per pigrizia o complicità o cinismo di bidelli e di uscieri occulta o ricopre sotto un patchwork di “darsi carico” e “fare chiarezza” giornalese qualunque dato e fatto politico e reale, mistificandolo e rendendolo indecifrabile né più né meno come quei certi responsi “sibillini” del Potere.» (Alberto Arbasino)
In tempi molto più recenti, calca la mano Massimo Mantellini: «Talvolta simile giornalismo è spontaneamente vicino alle cause e ai modi di una certa politica, altre volte (sempre più spesso) produce spazzatura per propria scelta economica e non per semplice parentela politica. Si crea così un effetto volano da un certo punto di vista virtuoso: i peggiori politici utilizzano l’autorevole marchio giornalistico di tizio e caio per giustificare le proprie scelte comunicative. E ancora una volta risulta lampante come il giornalismo nel suo complesso in questo Paese sia utile fantoccio e servo stupido a un approccio reazionario al mondo. L’esatto contrario della ragione per cui era nato e di cui continua a vantarsi. Quando i giornali invocano il proprio ruolo (da remunerare) negli equilibri democratici e nel pluralismo informativo semplicemente mentono sapendo di mentire.» (da manteblog, il blog di Massimo Mantellini).
Proprio così.
4. ESEMPIO. Di recente è stata presentata come “una svolta” l’intervista di Giorgia Meloni al terribile settimanale Chi, che alla prova dei fatti non risulta nient’altro che un’antologia di sdolcinate amenità strumentali e banalità propagandistiche davvero poco – anzi punto – innovative, tipo: «Se diventerò premier, non rinuncerò a nulla di ciò che riguarda mia figlia Ginevra, che ha 6 anni. Le donne si organizzano sempre. Basta guardare Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che ha sette figli, o Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, che sta crescendo quattro maschi». Commenti sapientissimi sulla ricchezza umana («mamma e premier in trincea») e sulla coraggiosa scelta femminista («basta Ungheria, Giorgia sta con l’Europa»). Sintetizzando, il solito trito e ritrito, “Dio Patria e famiglia”. Ma vediamola all’opera dal vivo, immersa nella realtà della sua “vera” dimensione, quella esterna alla pagine patinate dei settimanali “giornalistici” di servizio.
Il celebre cuoco Vissani, avendo come tutti ricevuto una bolletta della luce triplicata, ha reso pubblico il suo grido di dolore: «Se ci vogliono far chiudere basta che ce lo dicano». Replica Michele Serra: «Chi vuole fare chiudere Vissani? Il governo? Il suo fornitore di energia elettrica? Putin? Il Pd? I cinesi? Draghi? La concorrenza? Il Papa? McDonald’s? Esiste forse una volontà specifica, un soggetto identificabile, che abbiano progettato la triplicazione delle bollette allo scopo di colpire Vissani e affossare l’economia? E se non esiste, che senso ha la frase “se ci vogliono fare chiudere ce lo dicano”, ritornello banale quanto sciocco quanto insopportabile di questi ultimi, pessimi anni, nei quali pare che lo scopo della vita sia individuare un “loro” (il governo, i poteri forti, i poteri occulti, le banche, la finanza ebraica, tua sorella) al quale attribuire ogni malefatta, ogni disgrazia, ogni rovescio della sorte?
Io non sono contento di pagare bollette triplicate, e sono in ansia, come tutti, per l’inverno che ci aspetta. Ma non credo che nessuno “voglia farmi chiudere”. Credo che si debba rimanere calmi, tenere forti i diritti, forti i doveri, e quanto più benestanti si è (parlo di Vissani), tanto più si debba dare il buon esempio, moderando i toni, ragionando bene, evitando di dare la colpa a “loro”. “Loro” non esistono.» (Michele Serra)
“Loro” siamo noi.
Ma cosa sarà? L’avversione per la perdita (ma di che…?); lo spirito dei tempi; il birignao politico-giornalese, o cos’altro? Come scrive Umberto Eco riferendosi alla letteratura, anche la politica dovrebbe rivelare al proprio “pubblico” ciò che i cittadini dovrebbero volere, anche se non lo sanno, invece di andare incontro ai desideri dei cittadini tali e quali li si trova già per la strada; di continuare ad offrire – o fingere di farlo – ciò che il lato oscuro e complice degli italiani chiede da sempre: il solito, illusorio e sciamanico guaritore di tutti i loro mali. Winston Churchill disse a suo tempo: «Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…»